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di fronte alle agitazioni per l’Italia irredenta, ed espresse la speranza che il Governo riuscisse a riprendere quella considerazione che merita una politica coerente.

Il discorso dell’on. Visconti-Venosta fu un colpo per il ministero, perchè fece capire nella Camera e nel paese, che un uomo che parlava con tanta calma e con tanta elevatezza, non pronunziava un biasimo per la soddisfazione di far cadere un Gabinetto, ma vi era spinto soltanto dalla viva premura del bene della patria.

Nella seduta successiva fu rivolta al Governo la prima interpellanza sull’Africa. Peraltro dell’Africa si era già discusso alla Camera l’anno prima quando, su proposta dell’on. Martini, furono accordate 28,000 lire alla spedizione Matteucci, ma interpellanze non se n’erano mai udite e colui che ne apri la serie fu l’on. Vollaro, quasi africano per il lungo soggiorno fatto in Egitto. Già dal mese di gennaio due bastimenti Rubattino avevano preso possesso della baia di Assab; due spedizioni, una composta del Cecchi e del Chiarini, la seconda guidata dal Matteucci e da Giovanni Borghese, erano in cammino per il Vajai; il dottor Bianchi, del comitato milanese, doveva rimettere al Negus Giovanni una lettera autografa del Re e molti doni. Così da questo cumulo di fatti si vede che gli sguardi dell’Italia si portavano sull’Africa, e che prima o poi si sarebbe venuti all’occupazione di un punto del continente nero.

Ma la discussione sulla politica estera fu turbata da un incidente fra l’on. Farini, presidente della Camera e l’on. Mancini. Già i capi della Destra e della Sinistra si erano scambiati vive parole. Al biasimo dei primi sulla politica estera, aveva risposto il Crispi dicendo che non toccava agli uomini del partito moderato a rimproverare i loro successori, perchè questi ne avevano continuato gli errori.

L’on. Cairoli poi aveva portato in ballo la quistione della Città Leonina, che il Governo del 1870 voleva lasciare al Papa, e la formula del plebiscito, non accettata dai Romani, e il Sella gli rispose aspre parole, come ne rispose al Crispi quando asseri che il Lanza e il Visconti-Venosta non volevano venire a Roma. Gli animi erano riscaldati e la discussione non poteva esser calma. L’on. Mancini propose un ordine del giorno favorevole al ministero, e nello svolgerlo usò parole offensive per l’on. Bonghi. Il presidente lo richiamò all’ordine, il Mancini si risentì vantando la sua pratica parlamentare di trent’anni, e l’on. Farini offeso disse che rinunziava alla presidenza, si coprì ed uscì dall’aula. Non appena l’on. Farini si fu ritirato, vi fu un adunanza di ministri nella sala della presidenza, alla quale parteciparono anche gli on. Sella, Crispi e Nicotera e tentarono d’indurlo a riprendere il suo posto. L’on. Farini si era lasciato quasi convincere, quando seppe degli applausi coi quali era stato accolto dalla Sinistra il vice-presidente Spantigati; credè che essi significassero biasimo per il suo operato, e non volle più recedere dal suo proposito. La Camera deliberò il giorno dopo all’unanimità di non accettare le dimissioni del presidente, ma egli insistè e pur ringraziando la Camera dell’attestato di simpatia che gli aveva dato, rimase fermo nell’intendimento di ritirarsi.

La Camera votò sull’ordine del giorno Mancini e il Governo ebbe anche nella politica estera una maggioranza notevole, mercè un abile discorso del presidente del Consiglio. Egli, alludendo chiaramente a Crispi, disse ripetutamente che non avrebbe accettato ordini del giorno ambigui o che pretendessero di attenuare il valore della fiducia che la maggioranza aveva in lui. L’on. Crispi, che aveva attaccato il ministero e aveva posto in dubbio che potesse esservi accordo fra gli on. Depretis e Cairoli, si allontanò dall’aula al momento del voto. Il giorno dopo si dimetteva da presidente e da membro della commissione del Bilancio.