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Morto il Carini, si scrisse molto sui rapporti da lui avuti con il cardinal Pecci, allorchè il primo copriva a Perugia la più alta carica militare, e il secondo la ecclesiastica, e credendo di far torto all’eroico generale siciliano, ammettendo la dimestichezza corsa fra lui e l’arcivescovo Pecci, si volle asserire che tutta l’amicizia si riducesse a uno scambio di lettere per una visita del cardinale all’ospedal militare.

Invece l’amicizia aveva legato quei due uomini, i quali nell’esercizio del loro ministero avevano imparato a stimarsi reciprocamente, e se il figlio del Carini, il dotto monsignor Isidoro, vestì l’abito talare, fu appunto in conseguenza di quella sincera e bella amicizia che legava il generale all’arcivescovo di Perugia; e questi, divenuto Papa, protesse sempre il figlio dell’amico suo e riconoscendone i meriti veramente straordinari, lo nominò vice-bibliotecario di S. R. C. Monsignor Isidoro, che abitava un quartierino attiguo alla biblioteca, aveva conservato presso di sè, più come persona di fiducia, che come servo, un romagnolo, antico compagno d’armi del padre, che mi pare si chiamasse Volpini, il quale guidandomi alcune volte a visitare l’appartamento Borgia, quando ancora vi si serbava la biblioteca Bufalini, mi vantava con voce commossa l’eroismo, la bontà, l’intrepidezza del suo compagno di pericoli e di lotte. Quelle parole pronunziate dentro le mura del Vaticano, producevano su di me un effetto che non dimenticherò mai, e mentre mi provavano che il generale era stato davvero un uomo di cuore e d’intelletto elevatissimo per lasciar così vivo ricordo di sè nei suoi amici, mi convincevano della deferenza del Papa verso monsignor Carini, del Papa che tollerava la presenza di un antico cospiratore, di un soldato della indipendenza italiana dentro il suo palazzo, pur di non privare il vice-bibliotecario di S. R. C. di una persona affezionata. Quell’uomo che parlavami così in quel luogo, era un elogio non solo per il generale morto da più anni, ma anche per il Papa vivente.

Nello stesso giorno in cui si celebravano a Roma i funerali del general Carini, l’aristocrazia romana accompagnava al Campo Verano don Carlo Barberini, principe di Castelvecchio, già comandante delle guardie nobili pontificie. Egli morì senza lasciare eredi maschi, cosicchè il maiorascato passò al fratello, don Enrico, che gli sopravvisse pochi anni soltanto. Don Carlo lasciava due figlie maritate già da molto tempo in casa Corsini.

Il giorno 9 di quel mese di gennaio, sempre con nuova espansione di cordoglio si commemorò, per iniziativa privata, la morte del gran Re, al Pantheon.

Il figlio pietoso vi andò alle 7 di mattina entrando dalla parte della sacrestia in via della Palombella e rimase a pregare inginocchiato per circa mezz’ora. Rientrando al Quirinale assistè insieme con la Regina ad una messa funebre, nella nuova cappella che Leone XIII aveva permesso fosse consacrata nel palazzo reale. Verso le 10 si riunirono nel cortile della Minerva le associazioni che volevano prender parte alla mesta cerimonia, promossa dal comizio dei Veterani e dalla Società di vigilanza elettorale.

Alle 10 1/4 il corteggio mosse verso il Pantheon recando tutte le bandiere abbrunate e grandi corone di fiori freschi, di semprevivi, e d’alloro. Esso si componeva delle due società suindicate, della rappresentanza della milizia mobile, della rappresentanza del municipio di Velletri, dei veterani di Torino, Napoli, Firenze, Bologna, Civitavecchia, Frosinone, Tronzano Vercellese, Novara, della Società dei Reduci delle patrie battaglie di Roma, di quella dei Reduci Italia e Casa Savoia, dei superstiti delle guerre nazionali, di quelli delle patrie battaglie di Treviso, della Regia Accademia filarmonica romana, del Liceo musicale, dell’Associazione dei ferrai, dell’Associazione Costituzionale, della Associazione medica romana, della Società dei cocchieri, della Società cosmico-uma-