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nistero, e che mentre il Gabinetto precedente aveva manifestato il proposito di sottoporre al Parlamento nuovi provvedimenti diretti ad assicurare il pareggio ed insieme l’adempimento del voto della Camera rispetto alla graduale abolizione del macinato, il nuovo Ministero era di parere contrario, e chiedeva prima l’approvazione della legge. Per questo l’Ufficio Centrale proponeva la sospensiva. Dopo una lunga discussione il Senato approvò la proposta Saracco e così l’eterna quistione del macinato non fu risolta neppure in gennaio.

La Camera si adunò due o tre volte solamente, prima che l’on. Cairoli chiudesse la sessione e nella sua prima riunione udì l’elogio funebre del general Carini, morto appunto il 18. Del prode soldato parlarono con affetto il Presidente della Camera, il general Ricotti, l’on. Crispi e il Presidente del Consiglio. La cittadinanza romana aveva dimostrato pure quanto fosse dolente della perdita di un bravo soldato uscito dalle file garibaldine, recandosi numerosa al trasporto funebre. In quella occasione, insieme con i Veterani 1848-49 si mostrò per la prima volta un nuovo sodalizio, quello dei Reduci Italia e Casa Savoia.

Giacinto Carini era morto in conseguenza di una ferita al braccio, che riapertasi, lo aveva fatto acerbamente soffrire per lunghissimo tempo, producendogli poi la cancrena. Un colpo terribile aveva recato al Carini il decreto del suo collocamento a riposo. Non aveva beni di fortuna, e non sapeva come tirar su la famiglia con la magra pensione. Da queste angustie avevalo tratto il Re generosamente aiutandolo, ma egli non si poteva consolare di essere ridotto cosa inutile.

Tutti i giornali tesserono con vera ammirazione gli elogi del defunto, ma la pagina più originale che fosse scritta sul Carini, devesi alla penna dell’on. Martini, che lo conobbe molto e lo amò come meritava.

«Le milizie borboniche, scriveva Ferdinando Martini nel Fanfulla della Domenica, erano entrate in Catania, e si dirigevano rapide verso Palermo; presso Ruggero Settimo, il 21 aprile 1849, si dibatteva se la Città dei Vespri dovesse cedere o combattere. Carini, il capitano de’ villici armati, il vincitore di Burgio, non esitò: propose di resistere fino all’ultimo; sebbene prevalesse l’opposto partito, egli nè si scorò, nè si disaisse; chiamò disperatamente alle armi, e a capo di pochi popolani, di uno squadrone di cavalleria e della schiera dei volontari francesi, assalì con grande impeto i Borbonici a Villabate e a Belmonte.

Schiacciato dal numero, scampò a mala pena la vita e insieme con molti dei cittadini più compromessi s’imbarcò sul Descartes, che faceva vela per Marsiglia.

«E sulla terra straniera cominciarono i giorni delle durissime prove, per il Carini come per tutti. Se non che in lui era più forte che in altri l’animo, più viva la fede, più costante il bisogno di operosità: costretto a esulare dall’Italia a dimorare in Francia, si propose di accrescere e stringere tra un popolo e l’altro i legami di interessi e di simpatie; e nel 1852 mise su un Office de commission franco-italien, che doveva facilitare la esportazione dei prodotti industriali ed agricoli della penisola, e mostrarne il pregio ai francesi.

«Gli era compagno nell’impresa Carmelo Agnetta, siciliano egli pure, oggi diventato uomo serio e prefetto di non so quale provincia; allora audacissimo, smanioso di singolarità, tanto da passeggiare per Parigi con la testa coperta da un fez e da dar nell’occhio alla polizia. L’Office si componeva di due stanze umide e buie in fondo al cortile di una casa in via Choiseuil, e vi convenivano quotidianamente parecchi esuli a ciarlare, a fumare, a fantasticare, a vuotare di rado qualche bottiglia spedita in saggio da Marsala.

«Tutto era pronto; soltanto gli affari mancavano. Finalmente entrò nell’Office un collo di merci: era una cassa di fichi d’India che invano l’Agnetta si affaticò ad offerire a tutti i restaurants di Parigi