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Il 1880.
Fra gli augurii e le feste che accompagnano di consueto la venuta del nuovo anno, si udì il primo di gennaio una parola di conciliazione e di pace fra la Chiesa e lo Stato, che non trovò peraltro eco nel paese. Essa partiva dal Conservatore, e rappresentava il pensiero di pochi utopisti. Dieci anni prima il Cadorna e poi il Lamarmora erano venuti a Roma animati dalle stesse idee e dalla stessa brama da cui furono spinti più tardi i fondatori del Conservatore. Dieci anni d’esperienza avevano dimostrato chiaramente la conciliazione essere cosa impossibile, vano il tentarla. La lotta poteva essere più o meno acuta, ma non poteva cessare. Cosi il nuovo giornale aveva un bel predicare soprattutto ai liberali: «pace! pace!» la guerra non cessò e non cesserà forse altro che dopo lungo volger di anni, allorchè molti papi si saranno succeduti sulla cattedra di Pietro; allorchè lontano lontano sarà il ricordo del potere temporale, e tutti quelli che ne hanno veduto la caduta saranno scesi nella pace della tomba.
Per questo il Conservatore era egualmente avversato dal grande partito moderato, al quale principalmente si rivolgeva, credendo in quello di poter reclutar molti proseliti, mentre era quel partito appunto che più di tutti era convinto della impossibilità della conciliazione; e dal partito clericale, che non ammetteva dovesse farsi, senza che il Governo italiano avesse sgombratu Roma. Mancava la base per l’accordo, come manca tuttavia.
Il Re anche in quell’anno mostrò fino dal primo giorno quanto fosse sollecito del bene della capitale e come il suo pensiero fosse sempre rivolto ai poveri. Al Sindaco S. M. disse, parlando