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Il 1877.
Dopo specialmente che la capitale si fu stabilita nella sua ultima sede, in Roma, il parlamentarismo assorbi tutta la vita della nazione. Inefficace fecesi l’iniziativa privata, quasi nulla quella del Comune, soggetta in ogni questione economica, edilizia e scolastica alle deliberazioni delle due Camere. Il Re stesso, che se della iniziativa non si era mai prevalso, aveva peraltro aiutata quella del potere esecutivo con la sua autorità ogni volta che eragli apparsa utile alla nazione, dava a conoscere di non desiderare più l’intervento proprio in nessuna quistione e di rimettersi in tutto e per tutto ai ministri, che governavano col Parlamento. Con la sua solita lealtà aveva chinato la testa ai voti dei rappresentanti della nazione, quando quei voti gli additarono di dover comporre un ministero di Sinistra, e dal 18 marzo 1876 fino al 9 gennaio 1878, con nessun atto il Sovrano cercò di far sentire che l’Italia aveva un Re. Vittorio Emanuele non fece nė disse nulla in quel principio del 1877. Il solo atto notevole che compisse fu il conferimento di un titolo nobiliare al general Medici: lo chiamò Marchese del Vascello, in memoria dell’eroica difesa di quel luogo.
Fino al 15 gennaio, chiuso il Parlamento, la vita pubblica tacque. Ma nelle vacanze erano avvenuti fatti tali che spinsero subito l’on. Corte a muovere interpellanza al Ministro dell’interno, prima sulla nomina del Minervini a Consigliere di Stato e poi sulla proibizione fatta agli impiegati di leggere la Gazzetta d’Italia, che continuava le accuse contro il Nicotera e ogni giorno commentava le discussioni del processo di San Firenze. Il Pancrazi, direttore di quel giornale, combatteva una fiera battaglia, con mezzi sproporzionati. Il suo ufficio di via del Castellaccio era sempre