Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
— 134 — |
d’accusa, per guadagnar tempo, e il ricorso fu respinto. Un gran mistero avvolgeva questo processo, che andò per le lunghe e dava campo alle più strane supposizioni.
Queste non si chiarirono altro che quando il processo venne alla Corte d’Assise di Roma il 20 ottobre. Gl’imputati erano: Giuseppe Luciani, Michele Armati, Luigi Morelli, Cornelio Farina, Pio Frezza e Salvatore Scarpetti, tutti romani. Ma il primo era il triste eroe del dramma sanguinoso, benchè le sue mani non fossero lorde di sangue. Egli comparve sul banco degli accusati bello ancora di quella fatale bellezza, che non aveva avuto poca parte nella sua breve fortuna. Vestiva con eleganza, aveva al solito i lunghi baffi biondi arricciati, teneva una gamba sull’altra, e col cilindro si batteva il ginocchio, mentre studiavasi di tenersi più che poteva discosto dai suoi complici, come se sdegnasse con essi qualsiasi contatto, anche materiale.
Il Luciani, soldato valoroso nel 1866 e 67, decorato della medaglia al valor militare, corrispondente della Gazzetta del Popolo di Torino, amico di persone d’illibata onestà, intelligente, bello, elegante, facondo, era un affascinatore, e anche colpito dall’accusa tremenda, di avere armato la mano dell’assassino Frezza per disfarsi di un antico amico, trovò ardenti difensori, come il Bottero, direttore appunto del suo giornale.
Le rivelazioni dei complici furono un fatto provvidenziale. Se non fosse stato scoperto, il Luciani sarebbe, nelle nuove elezioni tornato a Montecitorio, ove avrebbe, aiutato dall’audacia e dal fascino che possedeva, esercitato il suo fatale ascendente sull’assemblea.
Il Luciani sconta ancora la sua colpa all’ergastolo e non mi piace di tessere dopo vent’anni la storia di quel processo, che appassionò tanto gli animi non solo a Roma, ma anche a Torino e a Firenze, dove moltissimi avevano conosciuto il triste eroe.
La sua condanna, ripeto, fu provvidenziale, perchè trattenne molti incauti dal legarsi di amicizia con persone di cui non conoscevano nè il passato, nè i mezzi di sussistenza, perchè sfato altre reputazioni basate soltanto sul falso patriottismo acquistato in momenti in cui si badava più al numero che alla qualità dei difensori di una causa giusta, perchè mise in guardia il pubblico contro i parolai ambiziosi e i propugnatori d’idee sovversive. Difatti in vent’anni nessuno ha osato raccogliere la triste eredità di Giuseppe Luciani, dell’uomo che voleva salire ad ogni costo al potere con qualunque mezzo.
L’Imperatore d’Austria e l’Imperatore di Germania restituirono le visite al nostro Re, ma non vennero a Roma, come si era sperato. Il primo andò a Venezia in primavera; il secondo nell’autunno a Milano e anche adesso si fa un addebito al Minghetti e al Visconti-Venosta di avere accettato che le visite fossero restituite fuori della Capitale, specialmente quella dell’Imperatore d’Austria.
Considerando spassionatamente quel fatto, bisogna riconoscere che Francesco Giuseppe, nonostante che avesse per cancelliere il conte Andrassy, che spingeva l’impero austro-ungarico su una via di ostilità contro la Santa Sede, non sarebbe potuto venire a Roma senza far visita al Papa e a questa visita si opponevano ragioni di convenienza verso la nostra Corte. L’imperatore Guglielmo, impegnato nel «Kulturkampf», neppure poteva andare in Vaticano in quel momento, e venendo a Roma senza andarvi, avrebbe inasprito la lotta fra il suo Governo e i cattolici. Del resto la sua tarda età e la salute cagionevole, scusavano che egli limitasse il viaggio a Milano. Roma ne fu dolente, ma non offesa, e il Consiglio Municipale, su proposta di Guido Baccelli, che nelle elezioni parziali era entrato a farne parte insieme col Menabrea, con don Maffeo Sciarra, col Ranzi, col Lorenzini e con altri, proponeva che fosse mandato il seguente telegramma al Presidente del Consiglio, telegramma che fu difatti spedito: