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marinaro, la Camera approvò le leggi proposte dal Saint-Bon. È bello l’esempio del vecchio condottiere, infiacchito dagli anni e dai disagi, che ritrova l’antica energia per difendere le idee di un giovane e ardimentoso ministro, che condannava alla distruzione tutto un naviglio, credendolo insufficente ai bisogni del paese, per crearne uno nuovo.
Il Presidente del Consiglio torna da Garibaldi e vi torna il Sella, vi torna il Depretis, presidente della Commissione nominata dal generale, e parlando lungamente con Garibaldi riesce a convincerlo che le sue idee sono troppo vaste, e troppo alte le sue mire per poter essere sollecitamente attuate, che occorre contentarsi di meno. Del resto i tecnici del municipio e del ministero interrogati sul disegno del Canale, lo avevano respinto, dimostrando che avrebbe impoverito d’acqua il Tevere e che quell’impoverimento poteva esser nocivo, specialmente nell’estate.
Garibaldi intanto aveva annunziato il prestito mondiale dei 100 milioni per le spese, e avrebbe anche trovato i capitali dagli americani e sarebbe riuscito a costituire una società, se a quella si fosse accordato un diritto di imposta su tutti i bastimenti che fossero entrati nel nuovo porto. Questa proposta non era accettabile; gli amici del Generale vollero che il progetto fosse attuato con danaro nazionale e presentarono il disegno di legge alla Camera. Garibaldi andò il 26 maggio a svolgerlo ed era doloroso e commovente vederlo ritto sulle stampelle, sofferente, appena sorretto da un fil di vita, ma sempre saldo nel sostenere la sua idea generosa. Il progetto fu mandato agli uffici e ne fu relatore l’on. Fano. Però fu scartata l’idea del canale, difesa da Garibaldi, e venne stanziata la somma per i lavori in 60 milioni; 30 ne forniva il Governo e il rimanente era fornito dal municipio e dalla provincia.
Soltanto il nome di Garibaldi, che era legato al progetto, aveva potuto farlo discutere, altrimenti sarebbe rimasto a dormire lungamente, come molti altri, in mezzo a tante discussioni tempestose. Una violenta la promosse la sinistra sull’articolo 18 delle Guarentigie volendo dimostrare che lo Stato era disarmato di fronte alla Chiesa. Ma la più violenta fu quella per i provvedimenti eccezionali per la Sicilia, proposti dal Presidente del Consiglio. In quella discussione aspra, accanita nella quale il Tajani, già procuratore del Re a Palermo, fece gravissime rivelazioni sui funzionari di pubblica sicurezza, rivelazioni che portarono a ordinare una inchiesta, il Governo trionfo soltanto per 17 voti e non potè non accorgersi che perdeva piede specialmente sul terreno delle discussioni politiche.
Il ministro Ricotti condusse in porto la legge sulla difesa dello Stato, ridotta a esigue proporzioni, l’altra delle fortificazioni di Roma per proteggerla da un colpo di mano, e la legge sul reclutamento, ma a proposito di quella che stabiliva il servizio militare obbligatorio per tutti, i clericali si agitarono in ogni modo. Migliaia di petizioni giungevano al Re supplicandolo di non sancire la legge quando fosse sottoposta alla sua firma. Da Milano gli fu trasmesso un album corredato di 40,000 nomi. Il Re, che non faceva mai strappi allo Statuto, non rispose a nessuna di quelle suppliche, che venivano dai clericali sgomenti che i chierici e i seminaristi dovessero andare sotto le armi, come non aveva nel 1867 risposto alle tante suppliche che intercedevano per il mantenimento di questo o quel convento. Nel 1875 fece sapere a uno solo dei supplicanti che aveva trasmesso la domanda al Presidente del Consiglio, e nulla più.
Il Re in quell’inverno rimase molto più a Roma e non solo faceva frequenti gite a Castel Gandolfo, ove aveva comprata la Villa Torlonia, e a Castel Porziano, ma, cosa strana, assisteva talvolta anche ai ricevimenti che davano il mercoledi i Principi Reali e andava spesso all’«Apollo», al «Valle» e specialmente al «Politeama Romano», ov’era quasi sempre la compagnia equestre Ciniselli.