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ordine di fermare, per risparmiare ai popolani una inutile fatica. Prima di scendere ringraziò la folla e questa ognor più entusiasta, riprese a gridare e invase il cortile dell’Albergo. Garibaldi allora prese la parola e con quella voce forte, e dolce a un tempo come carezza, disse: «Certamente l’onore che mi fate e superiore ai miei meriti. Vi ringrazio immensamente della dimostrazione che mi fate. Nel trovarmi in mezzo a voi rammento il periodo patriottico e glorioso del 1849. Raccomando a tutti la calma più completa e l’ordine, giacchè ogni disordine sarebbe per me un gran dispiacere».

Prima che Garibaldi potesse scendere occorsero vari minuti, e dopo sceso, volgendosi alla folla plaudente disse: «Siate serii; occorrono fatti e non parole».

Una volta nel quartiere, che li per li eragli stato assegnato, il generale dovette presentarsi al terrazzo e raccomandò di nuovo al popolo di serbar l’ordine e di sciogliersi con calma.

Un’ora dopo riceveva la Giunta, che gli era presentata dal Sindaco, e gli esprimeva quanto contento provava Roma nell’accoglierlo fra le sue mura. Garibaldi rispose enumerando gli avvenimenti che gli rendevano cara Roma, e parlando dei lavori che occorrevano. Dopo la Giunta ricevé pure varie deputazioni, fra cui quella del 5° collegio. Garibaldi aveva rinunziato a questo collegio optando per il 1°, e in sua vece, contro Giuseppe Luciani, era stato eletto il conte Giacomo Lovatelli, di parte moderata. Il conte guidava la deputazione composta dei signori Nizzica, Cavallini, Acquaderni e Cruciani.

Nella serata Garibaldi era andato ad abitare in casa del figlio Menotti, e nelle prime ore della mattina seguente fece un’escursione a Monte Mario, uscendo da Porta Angelica, e tornando da Porta del Popolo. Dal belvedere del Tivoli, che il Pescanti vi aveva costruito per servire ai Romani di luogo di diporto, Garibaldi guardò con il canocchiale tutti i punti importanti di Roma, che gli ricordavano un tempo di guerra e di gloria, e disse: «A Roma ci siamo e ci resteremo. Lo ha detto il Re e per me mi basta, perché è un galantuomo».

Il momento più memorabile del soggiorno a Roma del Generale, fu il suo ingresso alla Camera. Si discuteva l’interpellanza Cairoli sugli arresti di Villa Ruffi, quando egli comparve nell’aula da una delle porte che mettono ai banchi di sinistra, accompagnato da Cairoli, Avezzana, Sesmit-Doda, Salvadore Morelli e Macchi. In quella Assemblea, già distratta dall’attesa, scoppiò un applauso immenso, che partiva dalle tribune, e poi un evviva sonoro. La dimostrazione fu ripetuta dai deputati, che si alzarono tutti. Allora il Presidente lesse la formola del giuramento: «Giuro di esser fedele al Re, di rispettare le leggi dello Stato e di esercitare lealmente le mie funzioni di deputato nel solo scopo inseparabile del bene del Re e della patria».

Garibaldi si alzò lentamente, si tolse il berretto e disse a voce alta: «Giuro!»

Quella parola solenne aveva un alto altissimo significato. Ribadiva il patto del 1860, il sacro motto della sua bandiera: «Italia e Vittorio Emanuele», e l’assemblea lo capi, perchè saluto il giuramento con un lunghissimo applauso. Tutta la Camera era profondamente commossa e dai banchi e dalle tribune il grido di «Viva Garibaldi!» fu più volte ripetuto.

Cairoli riprese a svolgere la sua mozione e Vigliani e Minghetti gli rispondevano. Garibaldi dopo aver deposto il suo voto in favore di quella mozione di biasimo al Governo, uscì dall’aula. La mozione fu respinta con 111 voti di maggioranza.

Una visita che al Generale riusci molto gradita, fu quella dei generali Cosenz, Dezza e Medici, suoi vecchi compagni d’armi. Quest’ultimo era il primo aiutante di campo di Vittorio Emanuele da molto tempo, e la sua visita aveva una doppia importanza. Garibaldi ebbe pure la visita della