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Introduzione | lxiii |
niero vede subito negli occhi di tante donne rumene e di tanti vecchi contadini, e trova il suo riscontro più significativo nelle note tristi, lente e rassegnate della dóina popolare, il dolce canto d’amore, di lontananza e di morte, che nessuno può più dimenticare quando l’ha udito una volta di notte in un ovile di pastori sulle vette boscose che sembra tocchino il cielo, mentre in alto scintillano le stelle e le fonti mormorano soavemente fra lo stormir degli abeti.
Oh recatevi sui Carpazi rumeni, restate qualche giorno soli a colloquio colle grandi ispiratrici di Eminescu: la selva verde e solenne e la sorgente cristallina, ascoltate il suono del cavalu e l’argentino tinnir dei campani delle greggi, studiate la storia piena di sofferenze inaudite e di eroismi leggendarii di questo popolo latino alle porte dell’oriente, imparate a leggere nella musica della dóina, nella pittura di Grigorescu, nei colori discreti e armoniosi dei tappeti e dei ricami popolari e soprattutto nel portamento serenamente tristo e rassegnato, ma nobile e direi quasi signorile, di qualche vecchio contadino rumeno, la tenacia serena, confidente e modesta di questo popolo, che, aggrappandosi alla terra dei suoi avi, ha potuto resistere al torrente di tante invasioni barbariche senza lasciarsene rapire e staccare; e capirete anche là poesia di Eminescu, che sembra dire anch’essa, come il proverbio popolare rumeno, che l’acqua passa, ma le pietre restano!
Bucarest, Natale ortodosso del 1922.
Balme (Valli di Lanzo), estate 1927.