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Per Licha la casa è fatta di muri che separano ciò che è privato da quello che è pubblico, che ci consentono di distinguere l’interiorità dall’esteriorità preservando ciò che si nega all’estraneo per accordarlo solo a chi vogliamo far entrare nel nostro profondo. Il suo sguardo di artista, uno sguardo da voyeur, ha cercato per anni di penetrare pareti al fine di cogliere quella dimensione privata, quei segreti profondi che ognuno di noi desidera sottrarre all’esposizione.
Ma da alcuni anni le case che compaiono nel lavoro di Emanuel Licha hanno perso ogni aspetto deduttivo, ogni carattere di armonia; fatte ormai di materiali da costruzione riciclati, sono diventate oggetti paradossali, incapaci di accogliere.
Si tratta di case-trappole che si aprono all’improvviso lasciando il loro abitante esposto e indifeso per poi richiudersi ingabbiandolo; che respirano come ventri materni, ma così facendo il loro interno si estroverte e si rende inabitabile; o che esplodono verso l’alto a mo di stantuffo come ad espellere i propri inquilini. E’ questo il caso di Blow up, un’installazione consistente in una casa quadrata, una sorta di rifugio, fatta di materiali di recupero come lamiere metalliche, senza ingresso e senza tetto. Troppo spesso, dice l’artista, le guerre lasciano gli edifici in questo stato: i muri resistono, ma il tetto brucia e sprofonda all’interno.
La construzione di Licha è tappezzata all’interno di un materiale tessile che riprende motivi tipici delle tappezzerie da interno. Un meccanismo di insuffiaggio è nascosto sotto la costruzione e si attiva nel momento in cui uno spettatore entra nella sala facendo pulsare violentemente

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