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a tommaso moro | 7 |
verrei io stesso a fare di me la satira quante volte parlo d’altrui. Oltre a ciò, colui che declama generalmente contro tutte le diverse condizioni, mostra di non prendersela cogli uomini, ma bensi coi loro difetti. Se v’avrà dunque chi chiamisi offeso, verrà egli così a scoprirsi d’essere colpevole, o di temere di passar per tale. Ben più liberamente e più mordacemente ha motteggiato in questo genere S. Girolamo, il quale non si è fatto scrupolo di nominare talvolta fino le persone. Ma rispetto a noi, oltre al tacere assolutamente i nomi, abbiamo temperato lo stile in modo, che il giudizioso leggitore vedrà facilmente, che lo scopo nostro fu di divertire anzi che di mordere. Nè ad esempio di Giovenale abbiam creduto di dover sommovere l’occulta sentina de’ vizj dell’umanità, nè svelare le sue infamie, ma il solo ridicolo ci siamo studiati di mettere in mostra. Se dopo tutto ciò v’ha tuttavia chi borbotti e s’adiri, costui almeno badi, che bello è il venir biasimato dalla Pazzia, la quale poichè tratta abbiamo in iscena, e messala a parlare, ci è stato d’uopo porle in bocca sensi e parole, quali al suo carattere più stanno bene. Ma a che tante cose teco, che sei un avvocato sì bravo, da ottimamente difendere cause anco non buone? Senz’altro dunque sta sano, o eloquentissimo Moro, e prendi animosamente le parti della tua Pazzia.
Di Villa, il 10 di giugno 1508.