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CAPITOLO XVI

Che alcuni partitanti, nelle proposizioni che fanno a’ principi di batter monete, cuoprono il loro interesse e fanno falsamente apparire che dalle loro proposizioni risulti utile non solo al principe, ma a’ jjopoli ancora.

È sentenza di Platone, altrettanto vera quanto difficile da comprendere senz’ un’attenta considerazione, che non può esser utile o guadagno alcuno fra’ mortali, che non sia danno e pregiudizio d’altri. Quel grano stesso che dalla terra uno trae lavorandola, anzi quelle stesse frutta che, spontaneamente nate, non ponilo negarsi dono gratuito della natura, quelle ancora, passando in mano di chicchessia, anco la prima volta sono a quelli bensí utili, ma a qualch’altro dannose; perché, se colui non le avesse, provvederebbe al suo vitto con altro modo, utile a qualchedun altro.

Ora, se il guadagno d’uno è dunque perdita d’un altro, come mai persuaderanno ad un principe i partitanti d’aver proposizioni, con le quali possa egli approfittarsi su le monete senza danno, anzi con utile de’ sudditi? Certissima cosa è che i partitanti, affine di proprio guadagno, s’ingeriscono in questi affari, né ardirebbono voler persuadere di moversi per zelo dei pubblico bene, senza proprio profitto. Ora, se oltre il proprio profitto vogliono che possa ne’ loro partiti guadagnare anco il principe, se deve averci profitto anche il popolo tutto, come si vantano il piú delle volte, mi dicano di grazia: chi ha da patire il danno opposto a questo loro utile? Gli estranei, no, perché il principe non può loro comandare che ricevano quelle monete ad altro prezzo che a quello che vorranno essi, mentre non sono suoi sudditi: ed io non discorro qui di monete da spendersi solo in paesi d’altri, come furono i temini sparsi da’ cristiani in Turchia, di cui si parlò sopra nel capitolo decimoterzo, perché in quel caso è chiaro che il danno va addosso a quelli; ma parlo delle monete da spendersi nel proprio paese del principe proprio e