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CAPITOLO II

Della proporzione della moneta alle cose vendibili, considerata universalmente.

Qualunque volta io considero la necessitá che aveva del commercio il genere umano e le comoditá che al suo vivere sono da esso risultate, non posso di meno di non ammirare la divina sapienza e bontá, che all’ingegno degli uomini infuse, tra gli altri, i semi di cosi feconda invenzione, qual fu quella della moneta, cui mediante si è cosi fattamente diffusa per tutto il globo terrestre la comunicazione de’ popoli insieme, che può quasi dirsi esser il mondo tutto divenuto una sola cittá, in cui si fa perpetua fiera d’ogni mercanzia, e dove ogni uomo, di tutto ciò che la terra, gli animali e l’umana industria altrove produce, può, mediante il danaro, stando in sua casa provvedersi e godere, Maravigliosa invenzione ! Imperciocché, essendo le cose tutte nel numero, peso e misura costituite da chi le creò, fra tutti gli stromenii, che per misura della quantitá, siasi discreta o continua, o siasi nel peso o nel moto, nel tempo della distanza, nella mole, o in qualunque altro modo considerata nelle cose, sono stati trovati, niuno può dirsi stromento piú universale della moneta, il cui uso si stende a misurar insino i desidèri e le passioni nostre: onde quel prezzo, che per soddisfare ad un appetito, buono o reo ch’egli sia, ci contentiamo di spendere, è appunto la misura dell’appetito con che lo bramiamo, mentre ci determiniamo in noi stessi che piú di tanto non spenderessimo per ottenerlo. Ed in ciò solo parrá ad alcuno difettoso stromento per pigliar tali misure la moneta: mentre non giunge a misurar l’insaziabile disiderio degli avari. Ma io, a chi perciò manchevole la giudicasse, risponderei essere proprio delle misure misurare le cose finite, non le infinite. Ma, perché egli è proprio ancora delle misure d’aver si fatta relazione colle cose misurate, che in certo modo la