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mante, ogni passo, ogni gesto del suo vicino; e quando credeva vederlo gioioso, quando sorprendeva un sorriso sulle di lui labbra, un lampo di contentezza nei di lui occhi, allora scagliavagli tante maledizioni, tante minacce furibonde, che non potevasi concepire, come quei soffi appestati d’invidia e di collera non andassero infiltrandosi negli steli dei fiori, a portarvi principii di scadimento e germi di morte.
Ben presto, tanto il male una volta padrone di un’anima umana favvi rapidi progressi, Boxtel non gli piacque di veder più Van Baerle; ma volle vedere però i suoi fiori. Egli in fondo era artista, e stavangli a cuore i capi d’opera di un rivale.
Egli comprò un telescopio, coll’aiuto del quale poteva seguire, bene quanto il proprietario ciascuna rivoluzione del fiore dal momento che germoglia nel primo anno il suo pallido rampollo fuori di terra fino a che dopo aver compito il suo periodo di cinque anni ei rotondeggia il suo nobile e grazioso cilindro, sul quale apparisce l’incerta vicenda del suo colore e si sviluppano i petali del fiore, che allora soltanto rivela i segreti tesori del suo calice.
Oh! quante volte lo sfortunato invidioso, montato sulla sua scala, vide nelle caselle di Van Baerle tulipani che abbagliavano con la loro beltà, soffocavanlo per la loro perfezione!
Allora, dopo il periodo di ammirazione ch’egli non poteva vincere, lo dibatteva la febbre dell’invidia, male che rode gl’intestini e che cangia il cuore in una miriade di serpentelli, che divoransi l’un l’altro, sorgente infame di orribili dolori.
Qualche volta in mezzo ai suoi martirii, di cui