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— Rubato! rubato! rubato! Io sono perduto.
— Oh! signor Cornelio, grazia! grazia! esclamò Rosa, che io ne morirei.
A questa minaccia di Rosa, Cornelio abbrancò le spranghe della graticola, e stringendole con furore:
— Rosa, gridò, ce l’hanno rubato, è vero; ma che ci abbiamo a dare per vinti? No, grande è la sventura, ma riparabile forse: conosciamo il ladro.
— Ahimè! come è possibile che ve lo possa precisare?
— Oh! ve lo preciso io: è l’infame Giacobbe. Lasceremo noi ch’ei s’abbia il premio a Harlem del frutto delle nostre fatiche, del resultato delle nostre veglie, del sollievo del nostro amore? Rosa, bisogna perseguitarlo, bisogna raggiungerlo!
— Ma come fare tutto questo, amico mio, senza scoprire a mio padre che noi siamo d’intelligenza! Come io, donna sì poco franca, sì poco capace, come raggiungere io quella scopo, cui forse voi stesso non raggiungereste?
— Rosa, Rosa, apritemi la porta, e vedrete se io non lo raggiunga; vedrete se non vi scopra il ladro, vedrete se io non lo faccia confessare il delitto, e chiedere misericordia!
— Oh! me meschina! disse Rosa singhiozzando, e che vi posso aprire, io? Che ho le chiavi? E se le avessi avute, non sareste già libero da un pezzo?
— Le ha vostro padre; il vostro infame padre, quel che mi schiacciò il mio primo tallo di tulipano. Ah! miserabile, miserabile! è complice di Giacobbe.