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In questo frattempo Guglielmo d’Orange attendeva, non senza affrettarne l’avvenimento con tutti i mezzi in suo potere, che il popolo, di cui egli era l’idolo, gli facesse del corpo dei due fratelli i due gradini, di cui aveva bisogno per montare al seggio dello Statolderato.

Ora il 20 d’agosto 1672, come abbiamo detto al cominciare di questo capitolo, tutta la città correva al Buitenhof per assistere all’escita di prigione di Cornelio de Witt, però per l’esilio, e vedere quali tracce avesse lasciato la tortura sul nobile corpo di quest’uomo, che sapeva così bene il suo Orazio.

Ci affrettiamo aggiungere che tutta quella moltitudine, che dirigevasi al Buitenhof, non vi si dirigeva solamente con l’innocente intenzione di assistere a uno spettacolo, ma non pochi tra quella eranvi per eseguire una parte, o piuttosto per adempire un impiego, che trovavano essere stato male disimpegnato. Noi vogliamo parlare dell’impiego di carnefice.

Eranvi accorsi altri, è vero, con intenzioni meno ostili. Per loro soltanto trattavasi di uno spettacolo sempre attraente per la moltitudine, il cui orgoglio istintivo è sodisfatto nel vedere nella polvere colui, che lungamente è stato sul piedistallo.

Questo Cornelio de Witt, quest’uomo senza paura, dicevasi, non era infermo, fiaccato dalla tortura? Non andavasi a vederlo, pallido, sanguinoso, svergognato? Non l’era un bel trionfo per la borghesia ben più invidiosa del popolo, al quale ogni buon borghese dell’Aya doveva prender parte?

E poi diceano tra sè gli agitatori orangisti, furbescamente mescolati nella folla, che essi contavano