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Erano settantadue ore concesse all’amante, è vero; ma erano settantadue ore minimate alla orticoltura. È vero però che su queste settantadue ore già trentasei erano passate; e le altre trentasei passerebbero ben sollecite, diciotto aspettando, e diciotto ricordando.

Rosa tornò alla medesima ora: Cornelio sopportò eroicamente la sua penitenza. Questo Cornelio gli era un degnissimo pitagorico, e purchè fossegli permesso di avere una sola volta per giorno novelle del suo tulipano, sarebbe rimasto anche cinque anni senza parlare d’altro, secondo lo statuto dell’ordine.

Del resto la bella visitatrice capiva bene che quando si comanda da una parte, bisogna cedere dall’altra. Rosa lasciava prendere le sue dita dalla graticola; e lasciava che Cornelio baciasse a traverso della ferratella, le sue ciocche di capelli.

Povera ragazza! tutti questi vezzi amorosi le erano ben più dannosi che di parlare del tulipano.

Ella ben lo comprese tornando nella sua stanza col cuore palpitante, le guancie ardenti, le labbra arse, gli occhi rugiadosi.

Il dimani sera poi dopo scambiate le prime parole, dopo le prime carezze fatte, Rosa guardò Cornelio attraverso la graticola, al buio, con quello sguardo che sente anche quando non vede.

— Ebbene! ella disse, ha buttato!

— Ha buttato! che? che? domandò Cornelio, non osando credere che Rosa da sè abrogasse la durata della sua prova.

— II tulipano, disse Rosa.

— Come, esclamò Cornelio, voi dunque permettete?....