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E alzatasi oppressa di cuore, rientrò in camera sua, dove ella prese una penna e della carta; e per tutta la notte esercitossi a tracciare lettere.

L’indomani per istrascinarsi fino alla finestra, Cornelio si avvide di una carta che era stata infilzata di sotto alla porta.

Si lanciò su quella carta, l’aprì e lesse uno scritto che avrebbe avuto pena a riconoscere per quello di Rosa, tanto ella avealo migliorato nei sette giorni di questa sua assenza:

«State tranquillo, il vostro tulipano va bene».

Benchè queste poche parole di Rosa calmassero un pochettino i dolori di Cornelio, non fu però meno sensibile all’ironia. Cosicchè, l’era un fatto, Rosa non era niente affatto malata, ma era ferita; niente affatto le si usava forza perchè non venisse da Cornelio, ma se ne teneva volontariamente lontana.

Rosa di tal fatta libera, trovava nella sua volontà la forza di non venire a vedere colui che moriva di crepacuore per non poterla più vedere.

Cornelio aveva carta e un apis che aveagli portato Rosa. Si accorse che la giovinetta aspettava la risposta, ma che non la verrebbe a prendere che nella notte; in conseguenza egli scrisse sopra un foglio simile a quello che aveva ricevuto:

«Non è già l’inquietudine, cagionatami dal mio tulipano, che mi rende malato; l’è il crepacuore, che io provo, di più non vedervi».

Escito Grifo dopo ritornato la sera, egli strisciò la carta di sotto la porta e ascoltò.

Ma per quanto egli orecchiasse, non intese nè il passo di Rosa nè lo scartocciare delle sue vesti.