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serratura, spinse i chiavistelli e andò a fare le medesime promesse ad un altro prigioniero.
Appena partito, Cornelio si approssimò alla porta per ascoltare lo strepito decrescente dei passi; poi, appena acquietato, corse alla finestra e guastò da capo a fondo tutto il nido dei piccioni.
Amava meglio di cacciarli per sempre dalla sua presenza, che esporre alla morte i gentili messaggeri, ai quali doveva la felicità d’avere riveduta Rosa.
La vista del carceriere, le sue minacce brutali, la cupa prospettiva della sua sorveglianza, di cui egli conosceva gli abusi, nulla di tutto questo potè distrarre Cornelio dai dolci pensieri e soprattutto dalla dolce speranza, che la presenza di Rosa veniva a risuscitare nel suo cuore.
Aspettò impazientemente che le nove suonassero all’orologio di Loevestein.
Rosa aveagli detto: «Stasera alle nove.»
L’ultimo tocco del bronzo vibrava ancora per l’aria, quando Cornelio intese su per le scale il passo leggiero e la veste ondeggiante della bella Frisona, e ben presto la graticola della porta, sulla quale desiosamente Cornelio fissava gli occhi, rischiarossi. Lo sportello dall’altra parte si aperse.
— Eccomi, disse Rosa, ancora tutta ansante per aver salito le scale, eccomi!
— Oh! buona Rosa!
— Siete dunque contento di vedermi?
— E lo domandate! Ma, dite come avete fatto a venire?
— Sentite, mio padre si addormenta tutte le sere non appena ha mangiato; allora io lo metto a letto