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informi avanzi, i quali non erano più che due scheletrì ancora sanguinanti.
Il buon popolo dell’Aya aveva spezzato le carni delle sue vittime, ma riportato fedelmente alla forca il pretesto di una doppia iscrizione tracciata sopra un cartellone enorme; sul quale con i suoi occhi di ventotto anni Cornelio arrivò a leggere le seguenti linee impresse dalla spada appuntata di qualche imbrattatore d’insegne:
«Quì pendono il grande scellerato Giovanni de Witt e il meno briccone Cornelio de Witt di lui fratello, due nemici del popolo, ma amici grandi del re di Francia.»
Cornelio gettò un grido di orrore, e nel trasporto del suo terrore frenetico percosse con le mani e coi piedi con tal violenza e con tale impeto la porta che Grifo accorse frettoloso coi suo mazzo enorme di chiavi in mano.
Aperse, e scagliando orribili imprecazioni contro il prigioniero, che incomodavalo fuori delle ore cui era solito incomodarsi, gridò:
— Olà? anco quest’altro de Witt che gli è arrabbiato? Tutti i de Witt hanno il diavolo in corpo!
— Signore, signore, disse Cornelio prendendo il carceriere pel braccio e traendolo verso la finestra; signore che mai ho letto laggiù?
— Dove laggiù?
— Su quel cartellone.
E tremante, pallido e ansante mostrogli in fondo alla piazza la forca sormontata dalla cinica iscrizione.
Grifo si mise a ridere.
— Ah! ah! Sì, voi avete letto.... Ebbene, mio