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ranza di riescita, e avrei abbandonata la lotta se Vincenzo non mi avesse fatto vergognare dei miei scrupoli. La coda era lunga dinanzi la porta dell’ufficio, ma il mio impiegato fece tanto bene, adoperò magnificamente i suoi gomiti, dando spinte qua e là, calpestando dei piedi, che in breve ci trovammo nella prima fila. E venne il nostro turno di essere introdotti.
Il locale ove entrammo era sommariamente ammobigliato; qualche sedile di legno, un gran tavolo nero, dietro cui stava seduto un ometto vestito di bigio, coi capelli più rossi ancora dei miei. Quando un candidato si presentava, egli esaminava rapidamente: prendeva delle annotazioni e lo congedava, trovandolo inaccettabile. Quando giunsi, egli si fece più conciliante; mi scoprii il capo e il suo viso parve calmarsi.
— È il signor Jabes Wilson, disse il mio impiegato, nominandomi.
— Meraviglioso! esclamò quell’ometto. Meraviglioso! Ecco appunto la tinta che noi cercavamo! Ben di rado ne vidi una di simile.
Mi fece sedere, alzarmi, camminare, mi esaminò in tutti i versi dichiarandosi soddisfatto. Poi di repente, mi prese il capo fra le mani e per un buon minuto mi stropicciò con forza.
— Mi scuserete, disse, ma spesse volte fummo ingannati e il dover mio fu di assicurarmi prima di tutto se la vostra tinta è naturale, e se non portate parrucca. Ma tutto va bene, e non abbiamo frode alcuna a temere.
Andò allora alla finestra, la spalancò, e gridò al popolo raccolto nella via che il concorso era chiuso, perchè il candidato era stato scelto.
Mi disse chiamarsi Duncan Ross, essere segretario della lega dei Rouquins, e il riconoscente obbligato del nostro benefattore comune Elias Hopkins. Poi mi domandò se avevo figli. E siccome risposi negativamente, il volto gli si offuscò.