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tutti, lo scorse laggiù, l’ultimo della seconda riga, gli occhi fissati su lui come quelli di uno spiritato.

Il tenente doveva dire poche cose e le disse con quell’accento proprio del militare, senza metafore, senza perifrasi, brevemente, succintamente. Poi lasciò i bersaglieri in libertà.

Ma, come suole accadere sempre quando si sentono sorvegliati, i bersaglieri non si sparpagliarono pel cortile, dal cantiniere od in altre camerate a far quattro chiacchere col paesano; ritornarono ciascuno al proprio letto a dar di gomito svogliatamente ai bottoni od al trofeo del cappello, a ricucire una saccoccia o mettere una toppa alla uosa.

Il tenente passeggiava su e giù per la camerata con aria indifferente. Gli era rimasto impresso quello sguardo intontito di Striani che gli era quasi penetrato nell’anima. C’era in quello sguardo un non so che di triste, di funereo che a lui rigido, severo, ma giusto sino allo scrupolo, suggeriva di esaminare con calma la mancanza commessa dal suo inferiore. E poi, Striani era sempre stato un modello di soldato, attento, pronto, intelligente! Lo sbirciò di lontano, poi, senza addimostrare studio, gli s’avvicinò.

Striani seduto sulla branda girellava fra le mani callose il berretto a fetz facendolo ciondolare di tanto in tanto pel fiocco: guardava fisso davanti a sè e non si mosse quando il tenente cominciò ad interrogarlo.

Quell’atto poco rispettoso anzi che adirare il tenente lo fece sempre più persuaso dello stato anormale del bersagliere.

— Striani, venite subito nell’ufficio del comandante la compagnia.

E vi si diresse risoluto mentre Striani lo seguiva col solito passo fiacco, dinoccolato.

Appena fuori, i bersaglieri vollero dire la loro.

— Aveva ragione il tenente!

— Come si fa ad esser così papino col tenente Barbetti che ha l’argento vivo nelle vene?

— Lo ficcheranno certamente alla prigione quel macacco di Striani.

E i giudizi, gli apprezzamenti si fecero sempre più arrischiati.