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zione di questo genere; sarebbe stata come una corda spezzata in uno di que’ suoi istrumenti sensibili.

E però non esisteva per lui che una donna sola, e questa donna era la defunta Irene Adler di dubbia fama.

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Dopo il mio matrimonio avevo perduto di vista il mio vecchio amico Sherlock Holmes.

Egli aveva conservato in Baker Street, nel centro di Londra, l’appartamentino en garcon, che per tanto tempo vi avevamo condiviso, e vi rimaneva talvolta delle settimane intere senza uscirne. Indi, di repente, scompariva e qualche giorno dopo la sua partenza i giornali annunciavano ch’egli aveva trovato la soluzione di un nuovo avvenimento misterioso che aveva messo in eboluzione i più sottili agenti della questura d’Inghilterra.


Una sera — era credo, il 20 marzo 1888 — io passava ritornando a casa dinanzi l’abitazione di Holmes. Le sue finestre erano brillantemente illuminate. Alzando il capo vidi, dietro i cortinaggi l’ombra dell’amico mio; egli camminava a capo curvo, colle mani dietro il dorso. Evidentemente si era lanciato ancora nella decifrazione di qualche nuovo problema. E tosto mi assalse il desiderio di rivederlo.

Come sempre, mi accolse amabilmente, senza entusiasmo però, il carattere suo concentrato gli interdiceva ogni effusione. M’invitò a sedermi, mi offri uno di quei zigari verdi che sapeva mi piacevano, e mi versò un bicchierino di cognac.

Poi prese posto vicino al caminetto, incrociò le gambe e guardandomi curiosamente:

— Caro mio, disse, davvero il matrimonio vi conferisce. Ingrassato a vista d’occhio. Perchè non mi comunicaste le vostre velleità matrimoniali?

— Come mai potete sapere che io presi moglie?

— Lo indovino, mio caro Watson, come indovino