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Poi, chi sarebbe arbitro di decidere intorno ai bisogni d’ogni individuo? Lo Stato?

Operai, fratelli miei, siete voi disposti ad accettare una gerarchia di capi padroni nella proprietà comune, padroni dello spirito per mezzo d’una educazione esclusiva, padroni dei corpi per mezzo della determinazione dell’opera, della capacità, dei bisogni? Non è per questo il rinnovamento dell’antica schiavitù? Non sarebbero quei capi trascinati dalla teoria d’interesse che rappresenterebbero, e sedotti dall’immenso potere concentrato nelle loro mani, fondatori della dittatura ereditaria delle antiche caste?

No; il Comunismo non conquista l’eguaglianza fra gli uomini del lavoro: non aumenta la produzione — ch’è la grande necessità dell’oggi — perchè fatta sicura la vita la natura umana, come s’incontra nei più, è soddisfatta, e l’incentivo a un accrescimento di produzione da diffondersi su tutti i membri della società diventa sì piccolo che non basta a scotere le facoltà1; non migliora i prodotti; non conforta il progresso nelle invenzioni; non sarà mai aiutata dalla incerta, ignara direzione collettiva dell’ordinamento. Ai mali che affaticano i figli del popolo, il Comunismo non ha che un rimedio per proteggerli dalla fame. Or non può farsi questo, non può assicurarsi il diritto alla vita ed al lavoro dell’operaio senza sovvertire tutto quanto l’ordine sociale,

  1. Fu calcolato che se, su cento lavoranti, un lavorante producesse per cento franchi in un anno al di là della produzione media, ei raccoglierebbe a suo pro un millesimo per anno, tre centesimi ogni tre anni. Chi può chiamare questo un eccitamento alla produzione?