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Questa parola comunione, ch’io ho proferita pensatamente, vi fu detta dal Cristianesimo, che gli uomini dichiararono, nel passato, religione immutabile e non è se non un gradino sulla scala delle manifestazioni religiose dell’Umanità. Ed è una santa parola. Essa diceva agli uomini che erano una sola famiglia d’eguali in Dio; e riuniva il signore e il servo in un solo pensiero di salvezza, di speranza e di amore nel Cielo.
Era un immenso progresso sui tempi anteriori, quando popolo e filosofi credevano l’anime dei cittadini e degli schiavi essere di diversa natura. E bastava al Cristianesimo quella missione. La comunione era il simbolo dell’eguaglianza e della fratellanza dell’animo; e spettava all’Umanità d’ampliare e sviluppare la verità nascosta in quel simbolo.
La Chiesa nol poteva e nol fece. Timida e incerta a principio, alleata coi Signori e col potere temporale più dopo e imbevuta, anche per utile proprio, d’una tendenza all’aristocrazia che non era nello spirito del fondatore, essa smarrì di tanto la via che diminuì, retrocedendo, il valore della Comunione, limitandola pei laici alla comunione nel solo pane e serbando ai sacerdoti la comunione sotto le due specie.
D’allora in poi, il grido di quanti sentivano il diritto d’una comunione illimitata, senza distinzione fra ecclesiastici e laici, per tutta quanta la famiglia umana, fu: comunione sotto le due specie al popolo: il calice al popolo! Nel XV secolo, quel grido fu grido di moltitudini sollevate, preludio alla Riforma religiosa santificato dal martirio. Un santo uomo, Giovanni Huss di Boemia, capo di quel moto, perì tra