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— Ebbene, non importa, siamo compatrioti, — disse generosamente l’altro. E subito gli raccontò le sue prodezze da maresciallo: aveva ammazzato più di dieci banditi, aveva dieci medaglie, e una volta era stato a Roma e il re lo aveva invitato al suo palco in teatro. Infine era un eroe. Però non raccontava mai la sua ultima prodezza; solo diceva di esser in reclusione per opera dei suoi nemici invidiosi. Sulle prime Costantino gli prestò fede e gli pose una forte simpatia nonostante la sua losca figura; ma siccome di giorno in giorno i racconti del maresciallo variavano e diventavano sempre più iperbolici, anch’egli (come tutti gli altri condannati che disprezzavano il re di picche, ma lo adulavano per servirsene) gli perdette la stima.

Del resto s’accorse che tutti là dentro, compresi i guardiani, erano bugiardi e felini. I condannati avevano bisogno di nascondere il loro vero essere, di immaginarsi cose fantastiche per il passato e per l’avvenire, d’ingrandirsi agli occhi dei compagni di sventura. Il destino che li aveva, contro loro volontà, riuniti in quel luogo d’odio, non destava e non lasciava destare in loro alcun affetto reciproco.

Costantino osservò con meraviglia che i condannati a pene maggiori erano i meno cattivi, sebbene i più vani e bugiardi. Dei meno delinquenti alcuni si odiavano, erano vili, facevano la spia; gli altri si servivano a vicenda finchè potevano ritrarne utile, tradendosi se occorreva, amandosi mai. Il re di picche diceva a Costantino:

— Una profonda corruzione rode quasi tutti i