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tratto d’acqua ferma, verde, ombreggiata da enormi piroscafi, con barche piene di uomini luridi che gridavano cose incomprensibili; intorno alle barche, sull’acqua verde, galleggiavano erbaggi, scorze di arancia, carte, immondezze. Edifizi immensi si delineavano su un cielo profondamente azzurro.

A Napoli i condannati furono separati: Costantino fu condotto al reclusorio di X. e non rivide più il suo triste compagno di viaggio dal viso giallo e sottile.

Giunto al suo destino, il condannato fu messo in cella, dovendo scontare sei mesi di segregazione. La cella misurava appena due metri di lunghezza e sei palmi di larghezza: ci stava appena uno strano lettuccio piegabile, che di giorno veniva chiuso e fermato alla parete. Dal finestrino scorgevasi soltanto il cielo.

Fu il tempo più triste della condanna di Costantino. Egli restava ore ed ore immobile, seduto, con le gambe accavalcate, le mani intrecciate intorno al ginocchio; ma, cosa singolare, non disperava mai, non si ribellava mai. Era convinto di espiare il «peccato mortale», come egli lo chiamava, di aver vissuto a lungo con una donna senza sposarla religiosamente. Sentiva sempre in fondo al cuore la certezza che un giorno o l’altro, finita l’espiazione del peccato, risulterebbe la sua innocenza e verrebbe liberato.

Intanto, se non disperava, soffriva: e contava i giorni, le ore, i minuti, nella continua e snervante attesa di un cambiamento di cose che non arrivava