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lentemente infrante, gli comunicavano un continuo tremore di convulsione. Cammina e cammina, passarono lunghe ore di angoscia, ritornò la notte: il compagno dal viso giallo sottile si lamentava sempre, dando a Costantino una irritazione angosciosa. Finalmente egli potè assopirsi e, cosa strana, tornò a sognare lo stesso sogno della notte prima; però questa volta Giovanna era corrucciata, e la culla ondulava quasi dolcemente. Quando Costantino si svegliò, il piroscafo pareva muoversi appena; nel gran silenzio dell’ora antelucana udì una voce dire al di fuori:

— Quella è Procida...

Egli rabbrividì di freddo, e si domandò se lo conducevano a Procida, sembrandogli d’aver sentito dire che colà vi era la galera. Anche il compagno si svegliò, rabbrividì, sbadigliò lungamente.

— Siamo giunti? — domandò Costantino. — Come stai?

— Non c’è male! Siamo giunti?

— Non so: siamo vicini a Procida: c’è la galera là?

— No. È a Nisida. Ma noi non siamo galeotti! — disse l’altro con fierezza: poi tornò a sbadigliare.

— Oh, cosa sognavo... — aggiunse, ma non proseguì raccogliendosi nel ricordo del sogno; e Costantino non parlò oltre.

I condannati vennero sbarcati a Napoli, e chiusi subito in un carrozzone nero e giallo che sembrava un sepolcro ambulante.

Costantino ebbe appena la visione di un gran