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— Ecco..., ecco... — disse con voce incerta, additando il difensore, — il signor avvocato ha parlato... mi ha difeso... ed io lo ringrazio; ma non ha parlato come volevo io... non ha detto, ecco, non ha detto...

Si fermò anelante.

Il presidente disse:

— Aggiungete pure alla vostra difesa tutto ciò che credete.

L’accusato rimase pensieroso ad occhi bassi, rifacendosi pallido: poi si passò la mano un po’ convulsa sulla fronte, quasi graffiandosi, e sollevò il capo.

— Ecco, — cominciò a voce bassa, — io, io,... — Non potè proseguire; strinse il pugno, si volse inviperito verso l’avvocato e gridò con voce tonante:

— Ma lo dica dunque che sono innocente, che sono innocente io!

L’avvocato mosse una mano accennandogli di calmarsi; il presidente sollevò le sopracciglia come per dire: — ma se egli lo ha detto cento volte; è colpa nostra se non possiamo crederci? — e un singulto di donna fremette per la sala.

Era Giovanna che piangeva: zia Bachisia la trasse fuori riluttante e piangente, e tutti, tranne il pubblico ministero, diedero uno sguardo alla lotta delle due donne.

Poco dopo la Corte si ritirò per deliberare.

Zia Bachisia, seguita da due compaesani, trasse Giovanna sulla piccola piazza, ed invece di confortarla si mise a sgridarla. Che era pazza del tutto? Voleva che la cacciassero via con la forza?