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uno zio carnale, fratello del padre; si chiamava Basile Ledda soprannominato l’Avoltoio (Dio l’abbia in gloria, se non è fra le granfie del diavolo), tanto era avido di denari.
«Era un tristo, un avoltoio giallo, Dio l’abbia perdonato: basta, si dice che abbia fatto morire la moglie di fame. Ecco, Costantino restò sotto la sua tutela; aveva qualche cosa, il bimbo; lo zio gli mangiò tutto, poi lo bastonava, lo legava tra due pietre, in campagna, e lo lasciava al sole ed alle api che gli pungevano persino gli occhi.
«Basta, arrivò un giorno che Costantino scappò di casa; aveva sedici anni. Mancò tre anni: egli disse d’essere stato a lavorare nelle miniere, io non so, egli disse così.
— Sì, sì! Egli è stato a lavorar nelle miniere! — proruppe Giovanna.
— Non so! — disse la madre, stringendo la bocca in atto dubbioso. — Basta, fatto sta che durante l’assenza di Costantino fu su Basile l’avoltoio sparato un colpo di fucile mentre stava in campagna. È vero che egli aveva dei nemici. Quando Costantino tornò, confessò che era scappato per sfuggire alla tentazione di ammazzare lo zio, che aveva odiato a morte; ora però il giovane cercò e ottenne di far pace con l’avoltoio... Ora senti, Paolo Porru...
— Dottor Porru! Dottor Pededdu! — gridò il nipotino, correggendo l’ospite. Questa lo guardò con ira e fu per dargli uno schiaffo, un piccolo schiaffo; Giovanna si mise a ridere.
Nel veder ridere l’ospite addolorata, che aveva lo