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La sua sola presenza parve dare una calma rigida alla figliuola.

— Alzati! — disse una voce rauca.

Giovanna si alzò: era alta, grossa eppure svelta, con dei fianchi stupendi. Le sottane di orbace con una fascia di porpora intorno ai fianchi, orlate di panno verde, cortissime, lasciavano vedere i piedi piccoli, calzati da stivalini elastici, e il principio di due gambe modellate.

— Perchè dài tanto fastidio a questa brava gente? — chiese la madre. — Finiscila un po’, scendi giù a cena e non spaventare le ragazze e non turbare la gioia di questa brava gente.

La gioia di quella brava gente consisteva nel ritorno, per le vacanze, del figlio studente in legge, arrivato quella sera.

Giovanna parve capire e si calmò: si tolse dal capo il fazzoletto di lana, scoprendo una cuffia di vecchio broccato dalla quale scaturivano ondate di capelli nerissimi, e andò a lavarsi in un catino d’acqua deposto sopra una sedia. Zia Porredda guardò zia Bachisia, si strinse le labbra fra l’indice e il pollice della mano destra, accennando di far silenzio, e andò via senza far rumore.

L’amica obbedì; non disse parola, attese che Giovanna si fosse lavata e rimessa, poi entrambe scesero silenziose la scaletta esterna. S’era fatto notte, una notte calma, calda, profonda: alla piccola prima stella gialla erano seguite migliaia di astri argentei: la via lattea passava come un gran velo trapuntato di scintille, e un profumo aspro di fieno secco gravava nell’aria.