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un uomo, zia Porredda mia! Voi non capite niente, zia Porredda! Andatevene, andatevene, lasciatemi sola, per amor di Cristo, andate via...

— Io non vado via! — protestò zia Porredda. — Un corno! Sono in casa mia, io! Alzati, figlia del diavolo, finiscila, che ti fa male! Aspetta a domani a strapparti i capelli, chè tuo marito non è ancora ai lavori forzati.

Giovanna riabbassò la fronte, e riprese a piangere un pianto calmo, accorato, che spezzava il cuore.

— Costantino mio, Costantino mio, — diceva con nenia, come cantano le prefiche davanti ad un morto, — tu sei morto per me, io non ti riavrò mai più, mai più. Quei cani rabbiosi ti hanno preso e legato, e non ti lasceranno più andar via. E la nostra casa resterà deserta, e il letto sarà freddo, e la famiglia andrà dispersa. Bene mio, agnello mio, tu sei morto per il mondo, così siano morti coloro che ti hanno legato!

Davanti al dolore di Giovanna zia Porredda si commosse, ma non sapendo più che fare, uscì sulla loggia e chiamò:

— Bachisia Era, vieni su, chè tua figlia sta diventando matta!

S’udì un passo per la scaletta esterna; zia Porredda rientrò e dietro di lei venne una donna alta, tragica, vestita di nero, col capo avvolto in una benda nera, nel cui cerchio spiccava un viso giallo d’uccello rapace, con due punti verdi brillanti per occhi, infossati e circondati da sopracciglia nere selvaggie e da cerchi lividi.