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sassinato. Poh! Poh! I morti non parlano più. Quello era l’urlo d’un cane, null'altro che l’urlo d’un cane.

Giacobbe rise piano piano, fra sè, cominciando ad addormentarsi; le palpebre pesanti gli si chiusero, non videro più quello sfondo violaceo e opaco che gravava come una tenda sull’apertura della capanna. Gli parve che un sacco colmo d’una materia molle ma pesante gli cadesse addosso; non poteva più muoversi, ma quell’immobilità aveva un non so che di dolce e di gradevole. Poi cominciò a far mille sogni confusi: fra le altre cose sognò di esser morto a causa d’un morso di vipera, e la sua anima era entrata nel corpo d’un cane e questo cane, piccolo, scarno, giallo, s’aggirava nella cucina di zia Bachisia in cerca d’ossa. Costantino sedeva accanto al focolare; era vestito di rosso, con una grande catena ai piedi: ad un tratto vide il cane e gli lanciò la catena; la testa dell’animale rimase presa, cerchiata stretta da un anello di ferro, e Giacobbe invaso da terrore si sforzò di parlare per farsi riconoscere. Si svegliò sudato, gridando:

— Uccellino di primavera!

La notte regnava. La tanca deserta, sotto il limpido cielo pieno di grandi stelle gialle, rosseggiava tutta nel chiarore delle macchie incendiate.

Giacobbe stette a lungo senza riprender sonno, voltandosi e rivoltandosi; la piccola sbornia gli era passata lasciandogli la bocca salata e arida. Si alzò e bevette; poi ricordò che la sera prima non aveva mangiato e stette a lungo ritto, pensieroso, sull’apertura della capanna, col viso illuminato dal chiarore dell’incendio.