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ragionamenti arguti 217


Mazzeo. Cosí fece. Ancor quell’altra non fu brutta che disse il potestá di Livorno, quando quei dottori gli andarono a mostrare che egli aveva fatto due espresse pazzie, una nel fare metter non so chi in galea per dieci anni e un altro a vita, dicendogli che ciascuno lo teneva secretamente per pazzo. Ai quali egli rispose: — Di grazia, signor dottori, se mi volete bene, levatemivi dinanzi, acciò che, facendone un’altra, e’ non mi tenessin poi pazzo publico. —

Guasparri. Ah, ah, ah, l’ebbe del buono!

Francesco. L’è parente, cotesta, di quella disse il magnifico Lorenzo a colui che gli venne a dire: — Dice messer tale che voi avete fatte due stoltizie; la tale e la tale. — Egli rispose: — E’ ne fará ben tante, egli, che mi fará tener savio. —

Guasparri. Io credo che tutte le cose che si fanno o le arguzie che si dicono, sien dette altre volte e fatte.

Mazzeo. Sí, ma diversamente. Credo bene che se noi vivessimo assai, che noi ritroveremmo di molti medesimi casi accadere, accaduti altre volte. E io ne dirò uno: per l’assedio della nostra cittá, non si fuggí egli un soldato del campo di fuori? e’ venne a trovar Malatesta dentro, con mostrarsi affezionato alla republica, e disse: — Per migliore spediente, io ho lasciato il cavallo. — Allora gli rispose súbito un fiorentino: — Tu hai saputo meglio accomodare il cavallo che te. —

Francesco. O sono eglino stati piú assedii, che questo caso sia intervenuto altre volte?

Mazzeo. Non questo, ma uno simile quasi quasi a punto. Fuggendo uno dall’esercito di Cesare, se n’andò in quel di Pompeo, se bene ho memoria, e disse che per la fretta aveva lasciato il suo cavallo: Cicerone, quando udí costui e seppe il caso, rispose súbito: — Tu hai del cavallo fatta miglior deliberazione che di te medesimo. —

Guasparri. Piacemi d’udir simil cose equali.

Francesco. Non si legge egli d’un certo re che tolse quel terribil uomo appresso di sé e gli dava un gran prezzo il giorno acciò che la notte egli amazzasse alcuni, e, avendone morti parecchi, il re gli disse: — Non fare altro, insino che io non