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ragionamento settimo 163


spendete in questa dolcitudine il piú che voi potete. Voi dovete essere uomo randagio, ferrigno e rubizzo; spendete pure in trebbiano, ché quei danari non andranno altrimenti alla Grascia: anco il duca murava.

Poeta. Tu mi pari ubriaco.

Gozzo. Fate che non vadi nulla in capperuccia, e lasciate andar l’acqua alla china; voi séte salito su’ muricciuoli e, da che avete gustato il trebbiano, voi séte tutto razzimato: or cosí ogni uno aguzzi i suoi ferri.

Poeta. Il vino ti fa dar la volta.

Gozzo. «Tu se’ cotto,» si dice a Firenze; ma io anaspo le parole anch’io a mente come voi l’avete scritte, che una cosa non s’accorda con l’altra.

Poeta. Odi ancor queste quattro e poi andremo a trebbianare.

Gozzo. A tracannar trebbiáno, direi io. Dite su.

Poeta. «Io non vorrei tanti andirivieni né tante schifiltá, né mi piace cotesto lume anacquato, che getta un poco d’albóre; piú tosto vorrei mettere un tallo sul vecchio ed esser Beccopappataci; ché io non vorrei che san Chimenti mi facesse la grazia. E’ mi vien voglia di ridere, e ho male, sapendo certo che egli ha da esser una tresca il fatto nostro. S’io mi racconcio la cappellina in capo...».

Gozzo. Le cose che voi dite son dette la maggior parte fuor del dovere; ma questa della «cappellina» passa battaglia, arrovescissimo. Finite, di grazia, ché ’l trebbiáno è meglio assai.

Poeta. «Tu non sai ancor mezze le messe; sí che guarda dove egli l’aveva! Penso che ci covi sotto qualche cosa, da poi che ’ paperi menano a ber l’oche: non ti creder d’aver questa pera monda e non andare stiamazzando ghignaceci, ch’io non voglio rimanere in su le secche».

Gozzo. Non piú, di grazia, ché voi mi tenete qui a piuolo come un zugo e siate entrato in un leccieto da non ne uscire a bene stasera: al trebbiáno vi voglio, e tutte codeste filatere vi svilupperò; a ber, vi dico, se volete.