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CAPITOLO LXVI.


Trattasi di quello che vedrà chi legge o sarà per udire chi si farà leggere.


Al

lorchè don Chisciotte uscì di Barcellona, si voltò a guardare il sito dov’era caduto, e disse: — Qua fu Troia, qua la sventura mia e non la mia viltà mi tolse i trofei e le conquiste; qua la sorte usò meco de’ suoi dritti e de’ suoi torti: qua si oscurò la luce delle mie prodezze: qua in fine cadde la mia ventura per non rialzarsi mai più.„ Ciò udendo, Sancio soggiunse: — Tanto è da bravi cuori, signor mio, l’avere pazienza nelle disgrazie come allegrezza nelle prosperità: e questo lo sostengo per la mia propria esperienza, chè se io stava allegro quando era governatore, non mi abbandono però alla malinconia ora che sono scudiere e a piedi. Ho inteso a dire che quella che si chiama Fortuna è femmina briaca, capricciosa e soprattutto cieca, ond’è che non vede quello che fa, nè sa chi abbatta o chi innalzi. — Sancio, tu sputi fuori troppa sapienza, disse don Chisciotte, nè so da chi tu abbia imparate tante cose: quello che io debbo dirti si è che non si dà fortuna in questo misero mondo, nè le cose che quaggiù accado-