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capitolo xlix 439

nanzi, il quale vorrebbe farmi morir di fame ostinandosi a dire che questa morte è vita; e così sia per lui e per tutti quelli della sua razza: e ripeto che intendo dei cattivi medici, chè quanto ai buoni si può riserbar loro una palma„.

Restavano ammirati tutti quelli che conoscevano Sancio Panza udendolo sì spiritosamente parlare, nè sapevano altro pensare, se non che gli uffizii e le cariche di somma importanza raddrizzano o storpiano l’umano intendimento. Finalmente il dottore Pietro Rezio Agurio di Tiratinfuora promise di apprestargli per quella sera la cena, quantunque con ciò trasgredisse le regole ed precetti degli aforismi tutti d’Ippocrate. Questa promessa soddisfece il governatore, che molto ansioso attendeva la sera e l’ora del refiziarsi: e tuttochè a parer suo il tempo se ne stesse immobile senza scorrere pur di un minuto, contuttociò arrivò finalmente il punto tanto da lui bramato nel quale gli apparecchiarono un piccatiglio o carne battuta di vacca con cipolla e con un paio di zampe di vitella attempata. Egli vi si buttò addosso con maggior gusto che se gli avessero dato francolini di Milano, fagiani di Roma, vitelle di Sorrento, pernici di Morone o paperi di Lavascios. Mentre stava cenando, voltatosi al dottore, gli disse: — Avvertite, signor dottore, di non lasciarvi d’ora innanzi cadere in mente di somministrarmi nè vivande delicate nè squisiti manicaretti; perchè sarebbe uno stravolgere il mio stomaco accostumato a nutrirsi di capra, di bue, di