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capitolo xxxv 331


— Per la vita mia, soggiunse subito Sancio, non tremila frustate, ma tanto io me ne darei tre sole come tre pugnalate. Chè il canchero roda l’inventore di questo bel modo di trarre d’incanto: e viva Dio che non hanno niente a che fare gl’incantesimi colle mie natiche innocenti: e se questo signor don Merlino non sa altre strade per disincantare la signora Dulcinea del Toboso, io per me non mi oppongo ch’ella vada incantata anche in sepoltura. — Oh la finirà, disse allora don Chisciotte a Sancio Panza, che io ti piglierò, pezzo di villano distruttore di agli, e ti legherò ad un albero nudo come sei nato; e se non bastano tremila e tre cento, ben seimila e seicento frustate ti regalerò, e sì sode che varranno per tremila e trecento strappate; nè mi star a replicare sillaba se non vuoi che io ti cavi il cuore„. Merlino allora soggiunse: — No, non ha ad essere così perchè le frustate debbono essere ricevute dal buon Saucio volontariamente e giammai per forza, e nel tempo che più gli tornerà a grado chè non gli si prescrive termine fisso: gli resti anzi concesso che volendo ridurre alla metà il travaglio di questa flagellazione possa lasciarsele affibbiare per mano altrui purchè la mano sia pesante. — Nè per mano altrui, nè per propria, nè pesante, nè da pesare, replicò Sancio, e nessuno mi toccherà. Sono stato forse io che ha partorito la signora Dulcinea perchè il male che hanno fatto i suoi occhi abbia ad essere pagato dal mio corpo? Questo è debito del mio padrone, questa è parte sua, a lui tocca, a lui che ad ogni passo la chiama vita mia, anima mia, mio sostegno, mia sicurezza: egli si faccia frustare per lei, e faccia quanto è necessario affinchè si disincanti; ma ch’io frusti me? abernunzio„. Non avea appena terminato Sancio di dire queste parole, che rizzatasi in piè l’argentata ninfa che stava accanto allo spirito di Merlino, e toltosi il sottil velo dal viso, si lasciò a tutti vedere tale che parve più che mezzanamente bella e di grazia piuttosto virile. Con voce non molto donnesca, rivolgendo il discorso dirittamente a Sancio, gli disse: — O malavventurato scudiere! animalaccio, cuore di sughero, viscere di macigno, di acciaio! Se ti fosse comandato, o ladrone e prepotente, di gittarti dall’alto al basso di una torre; se si esigesse da te, nemico dell’uman genere, che avessi ad ingoiarti una dozzina di rospi, due di rammarri e tre di serpenti; se ti avessero persuaso di ammazzare tua moglie e i tuoi figliuoli con truculenta ed acuta scimitarra, non saria maraviglia che ti mostrassi schifo e restìo; ma reca bene sorpresa e sdegno e terrore al pietoso animo di chi ti ascolta e di quanti vivranno dopo di noi, l’udire che tu muovi difficoltà, e ti dài gran pensiero di tremila e trecento frustate, mentre non vi ha bambino di dottrina, per furfantello che sia, che in ogni mese