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capitolo xxxv 329

senso di vero timore. Rizzatasi questa Morte viva, con voce come sonnolenta, e con lingua non molto sciolta, in questa guisa si espresse:

“I’ son Merlino ch’ebbe a padre il diavolo,
     (Se non menton l’istorie; e se pur mentono,
     Degli anni il corso accreditò la favola)
     Sommo della magìa monarca e principe,
     Archivista del senno zoroastrico,
     Rival del tempo e degl’ingordi secoli,
     Che l’alte geste d’oscurar procacciano
     De’ cavalieri erranti, razza intrepida
     Per la qual proprio mi disfaccio in zucchero.
E benchè ne’ stregoni e ne’ malefici
     E ne’ seguaci lor perversa l’indole
     Appaia sempre e il cuor crudele e perfido,
     Io però dolce son, soave, affabile,
     E a tutti cerco riuscir benefico.
Mentre là negli oscuri spechi d’Erebo
     Stommi con l’alma assorta, e tutto m’applico
     In formar certi rombi e arcane cifere,
     Ratto mi giunse della bella ed unica
     Dulcinea del Toboso il mesto gemito.
     Seppi la sua sventura e l’incantesimo,
     Che di dama gentil cambiolla in zotica.
     Paffuta villanzona. Dolor presemi
     E tosto dell’orribil metamorfosi
     Mi diedi ad indagar l’occulta origine;
     E poichè stetti centomila a svolgere
     Tomi ripieni del saver diabolico,
     Ecco che a sì reo duolo, a mal sì critico
     Or acconcio rimedio a porre accingomi.
O tu, gloria e splendor di quanti vestono
     Lucido acciaro e adamantine tuniche,
     Lume, fanal, sentiero, polo e mentore
     Di quanti abborron di poltrir nell’ozio
     E il grave uffizio degli Erranti imprendono;
A te annunzio, o baron, non mai qual meriti
     Lodato assai, a te del par magnanimo
     Che saggio don Chisciotte, onor di Mancia,
     Di Spagna stella, che se brami rendere
     Al primiero esser suo la bella ed unica