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capitolo xxiii 209

pertugi che da lungi si corrispondono, e che hanno origine dalla superficie della terra. Questa cavità o spazio vid’io quando, trovandomi stanco e disgustato dello stare pendente ed attaccato alla fune camminai per quella oscura regione senza avere direzione alcuna sicura e determinata; e mi persuasi allora di fermarmi e di riposare un poco. Gridai e dissi che non si calasse più fune senz’altro mio avviso; ma credo che voi non mi abbiate udito. Attesi allora a raccorre la fune che stavate calando, facendo di essa una ciambella, e mi vi sedetti sopra pensoso e in dubbio del come appigliarmi per calare sino al fondo, non avendo chi mi sostentasse. D’improvviso e a mio mal grado fui colto da profondissimo sonno, e senza che io ne sappia nè l’istante nè il come, mi risvegliai trovandomi nel mezzo del più bello, ameno e dilettevole prato che mai formasse natura ovvero creasse la più fervida umana immaginazione. Apersi, ravvivai, stropicciai gli occhi, e mi accorsi che io non dormiva altrimenti, ma ch’ero svegliatissimo; con tutto ciò volli tastarmi e il petto e la testa per accertarmi ch’io era veramente io, e non qualche vana e contraffatta fantasima. Il tatto, il sentimento, il concorde discorso che facea tra me e me tutto m’assicurò ch’ero in effetto io medesimo, e quel medesimo che ora qui vedete. Allora mi si offerse alla vista sontuoso e reale palagio o castello, le cui pareti sembravano fabbricate di trasparente e lucido cristallo: apertesi due grandi porte dello stesso, vidi che uscia ed avviavasi alla mia volta venerabile vecchio vestito con cappuccio di rovescio pavonazzo che strascicava a terra, con manto da collegiale togato, e tutto di raso verde che gli cingeva gli omeri e il petto, colla testa coperta da berrettino alla milanese nero, e con barba bianchissima che gli arrivava fin sotto alla cintura. Nessun’arme portava, ma teneva un rosario in mano con l’avemmarie più grosse che noci ordinarie, e le poste del rosario erano come mezzane ova di struzzo. Il contegno, il passo, la gravità, la maestosissima presenza sua ed ogni altra cosa che in lui ebbi campo di considerare mi tennero maravigliato e fuori di me. Mi si avvicinò, ed il primo suo movimento fu di strettamente abbracciarmi, e poi dirmi: — È molto tempo, o valoroso cavaliere don Chisciotte della Mancia, che noi, i quali tra queste solitudini stiamo incantati, attendiamo di vederti, affinchè avesse notizia il mondo per mezzo tuo di ciò che rinserra e copre la profonda grotta per dove entrasti, chiamata la Grotta di Montèsino: grotta visitata per la prima volta dal tuo invincibile cuore e dal maraviglioso tuo braccio. Seguimi adesso, signore preclarissimo, chè voglio mostrarti le stupende cose che si celano in questo trasparente castello, di cui io sono il custode e la