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capitolo l. 555


Udì Sancio queste ultime parole del suo padrone, e gli disse: “Procuri pure vossignoria, signor don Chisciotte, di regalarmi questa contea tante volte da lei promessa quante da me desiderata, e posso assicurarla che mi trovo capacissimo a governarla: e quando anche nol fossi, ho sentito a dire che vi sono degli uomini i quali prendono in appalto gli Stati dei gran signori, pagandone un tanto all’anno, e si danno la briga di governare essi, e frattanto se ne sta il padrone a panciolle godendo la rendita senza pigliarsi pure un fastidio. Io mi regolerò a questo modo, nè guarderò le cose per lo minuto, ed anzi, preso ch’io abbia il governo, comincerò dall’abbandonarlo un poco per volta, finchè poi lo rinunzierò affatto per godermi le mie entrate come un duca; e ci pensi chi ci vuol pensare„.

— Questo, fratello Sancio, disse il canonico, si riferisce unicamente al godimento delle rendite; ma l’amministrazione della giustizia tutta appartiene al signore dello Stato, ed è qui dove fa duopo sfoggiare l’abilità ed il giusto discernimento, e principalmente la buona intenzione di fare le cose con rettitudine: che se ciò manca al principio, andranno sempre errati il mezzo ed il fine; ed è per questo che suol aiutare Iddio il buon desiderio del semplice ed opporsi al cattivo dell’uomo falso ed astuto. — Io non m’intendo di queste filosofie, rispose Sancio Panza, e solo posso ripetere che sia pure presta a venire la contea, chè già mi tengo da tanto da saperla ben governare, avendo tant’animo quanto un altro, e tanto corpo quanto un altro, anche più grande di me: e tanto sarei re io del mio Stato come ciascun uomo del suo ed essendolo, farei