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capitolo xliii. 485

fra sè dicendo: “O mia signora Dulcinea del Toboso, estremo di tutte le bellezze, apice del più fino discernimento, archivio delle più brillanti grazie, deposito dell’onestà, idea insomma di tutto ciò che vi ha di utile, di onesto e di dilettevole al mondo, in che si occuperà di presente la tua signoria? Ti passerebbe forse dinanzi alla mente questo cavaliere tuo schiavo, che tanti perigli per solo desiderio di servirti, e di spontanea sua volontà va ad affrontare? Dammi tu nuove di lei, o pianeta dalle tre facce, che forse con invidia ora la stai mirando nell’atto che passeggia per qualche galleria dei suoi sontuosi palagi, o mentre appoggiata il seno a qualche indorata finestra, se ne sta considerando come possa, salva la sua onestà e grandezza, alleggerire le procelle che per sua colpa questo incatenato mio cuore va sopportando, e qual compenso dee dare in premio alle mie pene, e quale tranquillità ai miei travagli, e finalmente quale vita alla mia morte e quale ricompensa alla mia servitù! E tu, o sole, che stai già insellando con gran fretta i destrieri tuoi per affrettarti di vedere la mia signora, ti supplico che al primo mirarla tu la saluti da parte mia; ma guardati bene di non darle la pace nel viso quando la rimiri e la inchini, ch’io ne avrei molto maggior gelosia che tu non avesti per quella leggiera, ingrata, che tanto ti fece sudare e correre per le pianure di Tessaglia o per le sponde del Peneo;