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capitolo xliii. | 481 |
nima mia, che nessuno potrà discacciarnelo mai, a meno che non si stanchi egli medesimo di restarne al possesso„. Rimase maravigliata Dorotea di ciò che intese dalla giovane, sembrandole che la qualità delle sue espressioni, e il suo giudizio fossero superiori all’età che dimostrava, e perciò le soggiunse: — Voi parlate in modo, o buona ragazza, che non vi so intendere; dichiaratevi più apertamente e rispondetemi: Che significa ciò che dite di anima e di vassalli, e di questo musico, la cui voce v’inquieta tanto? Ma no, tacete per ora; chè la brama di conoscere la causa delle vostre inquietudini non mi tolga il piacere che provo nell’ascoltare il cantore, il quale già ricomincia con nuovi versi e con altro tuono. — Fate ciò che vi aggrada, rispose Chiara, ma per nulla sentire ella si turò gli orecchi con ambe le mani, del che non poco si maravigliò Dorotea, la quale stando attenta al cantore udì che proseguiva nel modo seguente:
“O mia dolce speranza, che vincendo insuperabili ostacoli, seguiti la via che tu medesima ti hai trovata ed aperta, non ismarrirti comunque ti trovi presso all’ultimo passo.
“Non sono de’ peritosi gli onorati trionfi e la vittoria; nè coloro conseguono la felicità, i quali non contrastano alla fortuna, e tutti i lor sentimenti commettono all’ozio.
“Ben è ragionevole e giusto che Amore venda a caro prezzo le sue glorie, poichè non ha il mondo miglior tesoro: ed è manifesto che tiensi a vile ciò che a vil pregio s’acquista.
“L’amorosa perseveranza compie talvolta cose impossibili: però sebbene io mi sia proposto un fine malagevolissimo, non dispero per ciò di levarmi dalla terra al cielo!„
Qui ebbe fine il canto, e qui cominciarono nuovi singhiozzi di Chiara; d’onde si accrebbe in Dorotea il desiderio di saper quello che prima le aveva già domandato. Chiara, temendo allora di essere udita da Lucinda, abbraccio Dorotea strettamente, poi le accostò la bocca all’orecchio per modo che parlare poteva con tutta sicurezza di non essere da altri sentita, e disse: — Questi che canta, signora mia, è figliuolo di un cavaliere del regno di Aragona e signore di due terre, il quale abitava rimpetto alla casa di mio padre quand’era alla corte; e benchè mio padre tenesse le finestre di casa impannate di tela nell’inverno1, e con gelosie nella
- ↑ Al tempo del Cervantes le finestre non avevano invetriate nella Spagna.
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