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capitolo xxxix. 429

le mura della fortezza, e tirandovi a cavaliere toglievano agli assediati ogni mezzo atto alla propria difesa. Fu universale opinione che i nostri non avrebbero dovuto chiudersi nella Goletta, ma attendere in campagna aperta lo sbarco dei nemici: ma questo è un ragionare proprio di chi è lontano ed ha poca sperienza di simili fatti; perchè se soli sette mila soldati erano alla difesa e della Goletta e del Forte, come poteano in sì piccolo numero, per quanto essi fossero valorosi, uscire in campagna e cimentarsi in confronto di sì grande quantità di nemici? E come può non restare soccombente una fortezza priva di ogni soccorso, tanto più se viene assediata da una moltitudine di accaniti nemici, e nel loro stesso paese? Parve però a molti, ed a me pare ancora, che fosse gran mercè del cielo e fortuna della Spagna il precipitare che fece quella officina, centro di malvagità, e quella voragine o spugna fatta per assorbire un’infinita quantità di danari, che si disperdevano senza profitto e senza altro oggetto che di conservare la memoria del conquisto fattone dalla felicissima memoria dell’invittissimo Carlo V; quasi che a farla eterna, com’è, e sempre sarà, fosse stato necessario che avesse ad essere sostenuta da quelle pietre. Si arrese eziandio il Forte, che fu guadagnato palmo a palmo dai Turchi, mentre i soldati che n’erano alla difesa, pugnarono con tanta gagliardia e con tanto valore, che in ventidue assalti generali sostenuti restaronvi estinti più di venticinquemila nemici. Non fecero prigione uom sano dei trecento che vi rimasero: prova evidente ed indubitabile di lor gagliardia e costanza, e del distinto merito con cui si erano difesi. Si arrese a patti un piccolo forte o torre situata alla metà dello stagno, comandata da don Giovanni Zanochera, cavaliere di Valenza e famoso soldato, e si fece prigione don Pietro Portocarrero, generale della Goletta, il quale adoperato aveva ogni industria per difenderla; e tanto dolore gli arrecò il perderla, che ne morì mentre lo conducevano prigioniere a Costantinopoli. Restò eziandio in ischiavitù il generale del Forte, che chiamavasi Gabrio Serbelloni, cavaliere milanese, grande ingegnere e soldato valorosissimo. Perirono in queste due fortezze molti ragguardevoli personaggi, uno dei quali fu Pagano Doria cavaliere dell’abito di San Giovanni, di animo generoso; di che n’è stata prova la somma liberalità da esso usata a favore di suo fratello il famoso Andrea Doria: e ciò che rese più lagrimevole la sua morte si fu l’essere stato ucciso da alcuni Mori, ai quali si era affidato, poichè vide perduto il forte, e che se gli offrirono di condurlo in abito di Moro a Tabarca, ch’è un piccolo porto o casa tenuta dai Genovesi in quella riviera, ed ove si esercitano nella