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296 | don chisciotte. |
Tacque dopo avere ciò detto, col volto acceso da un rossore che palesava ben chiaramente il sentimento e la vergogna che celava nel cuore. Le sue parole produssero in chi l’aveva intesa non so se più rammarico o maraviglia: e sebbene volesse il curato cercare di consolarla e darle consiglio, Cardenio lo prevenne dicendo: — E che, o signora? voi siete la bella Dorotea, l’unica figliuola del ricco Clenardo?„ Restò maravigliata Dorotea nel sentir il nome di suo padre pronunziato da un uomo di sì bassa apparenza, e perciò gli disse: — Chi siete voi, fratello, cui è noto il nome del padre mio, mentre, se mal non m’appongo, non so finora d’averlo palesato nell’intero corso del racconto di mie sventure? — Sono, rispose Cardenio, quell’infelice che, secondo le vostre parole, fu chiamato da Lucinda suo sposo: sono lo sventurato Cardenio ridotto a mal punto da colui che guidò voi pure in sì terribile fatalità: quello son io tratto da Fernando alla condizione che vedete, lacero, ignudo, spoglio di ogni umano conforto, e ciò ch’è peggio, coll’intelletto sì guasto, che appena di quando in quando mi concede il cielo di poterne far uso. Sì, Dorotea, quello son io che mi trovai presente alle ingiustizie di don Fernando, e che aspettai quel sì con cui Lucinda promise di essergli sposa. Son io colui che non aspettai il successo dello svenimento, nè ciò che derivar potesse dal foglio trovatole in seno. Come incapace di sopportare tante sventure congiunte insieme, uscii allora da quella casa lasciando una lettera al mio ospite che la facesse pervenire alle mani di Lucinda; e volai tosto tra queste solitudini deliberato di terminarvi la vita, che dopo quel momento io detesto come un nemico mortale. Non piacque alla sorte di appagare il mio desiderio, contentandosi di recare offesa al mio intelletto; forse per riserbarmi alla buona ventura d’incontrarmi in voi; poichè se è vero, come non dubito, tutto quello che raccontaste, potrebbe essere che ci riserbasse il cielo a qualche migliore avvenimento in compenso dei sofferti disastri. La mia speranza non è mal fondata; perchè se Lucinda non può farsi sposa a don Fernando per essere mia, nè don Fernando con lei per essere vostro, avendone fatta essa dichiarazione così solenne, possiamo ragionevolmente confidare di vederci restituito dal cielo ciò che è nostro e che non fu nè alienato nè distrutto. E poichè abbiamo ora questa consolazione fondata non già sopra vane speranze o sopra fantastici pensieri, vi supplico, o signora, di appigliarvi ad altre risoluzioni, giacchè penso di così fare io pure attendendo fortuna migliore. Giuro intanto in fede di cavaliere e di cristiano di non mai abbandonarvi finchè non vi vegga unita a don Fernando; e se con sode ragioni condurre io non lo potrò al proprio dovere, prometto