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capitolo xxviii. 283

temuto di trovarmi avviluppata nelle presenti mie sventure, le quali procedono dal non esser eglino di nobile stirpe. Veramente non è tanto abbietta la loro condizione da doversene vergognare, ma non è tanto alta da ingannarmi se credo che non d’altronde proceda la sciagura mia che dalla bassezza di questo loro stato. In sostanza sono eglino gente di villa e alla buona senza meschianza di alcuna razza sconveniente, e come suol dirsi, sono cristiani vecchi e stantii, e colle loro fortune e col loro buon tratto vanno ogni dì più acquistando credito di onoratissima gente e di non volgari persone. La ricchezza e la nobiltà, di cui facevano maggior conto, consistea nel vantarsi ch’io fossi loro figliuola; e non avendo fuori di me in famiglia altri eredi, ed essendo genitori amorosissimi, potea risguardarmi come una giovane ben avventurata. Io era lo specchio in cui si miravano, il bastone della loro vecchiaia, l’unica meta dei loro voti, che per essere sempre santi e preziosi, venivano dal canto mio e colla grazia del cielo sempre assecondati. Per tale ragione come io signoreggiava sul loro cuore, così disponevo delle loro facoltà; da me riceveano legge i dipendenti; passava per le mie mani il conto del seminato e del raccolto; quello dei mulini dell’olio e dei tini; quello del bestiame grosso e minuto; quello degli alveari delle api; in fine io era la dominatrice di tutto ciò che può possedere un dovizioso abitatore delle campagne qual è mio padre; e ne avea egli sì grande soddisfazione che non la saprei significare con parole. Una parte della giornata, dopo avere ordinate le faccende dei mandriani e dei soprastanti, ed assettati altri affari,