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282 | don chisciotte. |
buona o trista fortuna, chè in tutti noi uniti o in ciascuno di noi in particolare troverete soccorso alle vostre sventure„.
Mentre che il curato ragionava in tal modo, stavasene la travestita giovane come stupefatta guardando ognuno di loro senza mover labbro o proferire parola; alla foggia di quel contadino il quale d’improvviso scorga cosa da lui per lo addietro nè immaginata, nè vista. Ma ripigliando il curato a parlarle con nuove ragioni atte a poterla persuadere, in fine mandò essa un profondo sospiro, ruppe il silenzio e disse: — Poichè non giovò a celarmi la solitudine di queste balze, e i miei sciolti e scomposti capelli torrebbero fede ad ogni menzogna, inutile mi sarebbe fingere più oltre ciò che, quand’anche fosse creduto, lo sarebbe forse più per gentilezza che per altro rispetto. Dopo questo, o signori, io mi professo tanto obbligata alle offerte vostre che mi trovo costretta di soddisfare interamente alle dimande che ora mi fate. Ho gran timore per altro che il racconto che sono per farvi, abbia da produrre in voi noia non meno che compassione, non essendovi rimedio per sanare le mie afflizioni, nè alleviamento per mitigarle: ma perchè intanto non iscapiti la mia riputazione nel giudizio che potreste formare di me, vedendomi femmina giovane, sola, travestita, cose tutte le quali congiunte ed anche separate possono screditarmi, vi paleserò quanto avrei desiderato di non iscoprire ad alcuno„. Tutto questo fu detto dall’avvenente giovane con lingua così spedita, e con accento così soave, che gli astanti ammirarono in lei non meno il suo discernimento che la sua bellezza: e venendole allora ripetute le richieste e le preghiere di affrettarsi a mantenere la sua promessa, ella, senz’altro lasciarsi pregare, si rassettò le calze con onesta disinvoltura, raccolse i capelli, si pose a sedere su di un sasso, e, fattosi cerchio de’ tre viandanti, e sforzandosi di ritenere una lagrima che le spuntava dagli occhi, con chiara e riposata voce così cominciò la sua istoria:
“In quest’Andalusia vi è una terra da cui prende il titolo un duca1 che è uno di quelli che fra noi si chiamano grandi. Ha questi due figliuoli, il maggiore erede del suo Stato, ed anche, a quanto sembra, de’ suoi buoni costumi; ed il minore non so di che possa esser erede se non dei tradimenti di Vellido e delle cabale di Galalone. Sono vassalli di questo potente i miei genitori, di basso lignaggio, ma doviziosi per modo che se pari alla fortuna fosse il loro nascimento nè resterebbe ad essi che desiderare, nè io avrei
- ↑ L’autore allude forse al duca d’Ossuna, ed a qualche fatto non intieramente immaginario.