viglietto, di cui subito si impossessò don Fernando, facendone lettura al chiarore di uno di que’ doppieri. Poteva appena averlo letto che si assise appoggiando ad una mano la guancia, e mostrando per tal guisa di essere assorto in gravi pensieri senza darsi premura alcuna di apprestare (come facevano gli altri) i soccorsi dell’arte alla sua sposa affinchè rinvenisse. Vedendo io il generale sconvolgimento della gente di casa mi avventurai di uscire, fossi o no per essere riconosciuto, con determinazione di dare, se mi avessero veduto, in sì straordinarii eccessi che il mondo tutto venisse a conoscere lo sdegno che mi traeva fuor di me stesso per vendicarmi del perfido don Fernando, e nel tempo medesimo della incostanza di quella svenuta traditrice: ma la mia fatalità che mi tiene in vita per opprimermi di maggiori mali (se pur è possibile che di maggiori me ne possano accadere), dispose che in quel momento mi abbondasse oltre misura il discernimento, che da poi ho perduto; e perciò senza prendere vendetta de’ miei maggiori nemici (il che mi sarebbe facilmente riuscito mentre nessuno pensava a me), risolvetti di prenderla contro me stesso e di punirmi della pena debita agli altri. Determinai di essere più rigoroso nel gastigar me stesso, di quello che sarei stato contro loro, se pure li avessi uccisi, perchè una repentina morte termina presto la pena; ma quella che si estende in molti tormenti, uccide continuamente senza però liberar dalla vita. Mi tolsi finalmente da quella casa, e recatomi presso colui che tenea in custodia la mia mula, la feci sellare, e senza dirgli addio, salitovi sopra, uscii dalla città, non osando, come un altro Lot, di volgere la testa a guardarla. Quando mi vidi solo in campagna, al primo imbrunire della notte, la quale coll’oscurità e col silenzio m’invitava al pianto e alle querele, senza verun riguardo o timore di essere inteso o conosciuto, alzai la voce e sciolsi la lingua alle più forti maledizioni contro Lucinda e contro don Fernando, come se per tal modo potessi vendicarmi dell’offesa che mi avevano fatta. Chiamai Lucinda ingrata, menzognera, sconoscente, e soprattutto interessata, da che l’opulenza del mio nemico le avea tanto accecato l’intelletto ch’ella sdegnò di esser mia per darsi invece all’uomo a cui la fortuna erasi mostrata più liberale. Pure in mezzo alle esecrazioni io andava cercando qualche sua difesa, dicendo a me stesso che non era a stupire se una giovane cresciuta nella casa paterna, accostumata mai sempre ad essere obbediente, si fosse lasciata piegare a compiacere altrui sposando un personaggio sì cospicuo, sì ricco e fornito di sì gran nobiltà; mentre rifiutandolo, potea giudicarsi che le mancasse il discernimento o che portasse amore ad un altro: cosa che suol tornare in pregiu-