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capitolo i. 11


torna al nostro proposito; e basta soltanto che nella relazione delle sue gesta non ci scostiamo un punto dal vero.

Importa bensì di sapere che negli intervalli di tempo ne’ quali era ozioso (ch’erano il più dell’anno), applicavasi alla lettura de’ libri di cavalleria con predilezione sì dichiarata, e sì grande compiacenza che obbliò quasi intieramente l’esercizio della caccia ed anche il governo delle domestiche cose: anzi la curiosità sua, giunta alla mania d’erudirsi compiutamente in tale istituzione, lo indusse a spropriarsi di non pochi de’ suoi poderi a fine di comperare e di leggere libri di cavalleria. Di questa maniera ne recò egli a casa sua quanti gli vennero alle mani; ma nissuno di questi gli parve tanto degno d’essere apprezzato quanto quelli composti dal famoso Feliciano de Silva1; la nitidezza della sua prosa e le sue artifiziose orazioni gli sembravano altrettante perle, massimamente poi quando imbattevasi in certe svenevolezze amorose, o cartelli di sfida, in molti dei quali trovava scritto: La ragione della nissuna ragione che alla mia ragione vien fatta, rende sì debole la mia ragione che con ragione mi dolgo della vostra bellezza. E similmente allorchè leggeva: Gli alti cieli che la divinità vostra vanno divinamente fortificando coi loro influssi, vi fanno meritevole del merito che meritamente attribuito viene alla vostra grandezza.

Con questi e somiglianti ragionamenti il povero cavaliere usciva del senno. Più non dormiva per condursi a penetrarne il significato, che lo stesso Aristotele non avrebbe mai potuto deciferare, se a tale unico oggetto fosse ritornato tra’ vivi. Non gli andavano gran fatto a sangue le ferite che dava e riceveva don Belianigi, pensando che a buon diritto nella faccia e in tutta la persona avessero ad essergli rimaste impresse e vestigie e cicatrici, per quanto accuratamente foss’egli stato guarito; ma nondimeno lodava altamente l’autore perchè chiudeva il suo libro con la promessa di quella interminabile avventura. Fu anche stimolato le molte volte dal desiderio di dar di piglio alla penna per compiere quella promessa; e senz’altro l’avrebbe fatto giungendo allo scopo propostosi dal suo modello, se distratto non l’avessero più gravi ed incessanti divisamenti. Ebbe a quistionare più volte col curato della sua terra (uomo di lettere e addottorato in Siguenza) qual fosse stato miglior cavaliere o Palmerino d’Inghilterra, o Amadigi di Gaula; era peraltro d’avviso mastro Nicolò, barbiere di quel paese, che niun al mondo contender potesse il primato al cavaliere del Febo, e che se qualcuno poteva competer con lui, questi era solo don Galaorre fratello di Amadigi di

  1. La Cronaca dei volorosissimi cavalieri ec. Saragozza. 1581.