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capitolo xxv. 243

potrò arrivare, nè quando ritornerò; poichè, a dir vero, io sono un cattivo camminatore. — Sia come si voglia, disse don Chisciotte, non mi dispiace, Sancio, di approvare il tuo consiglio, e soggiungo che partirai di qui a tre giorni: perchè intanto potrai essere testimonio di tutto quello ch’io farò e dirò rispetto alla mia diva, alla quale ne darai un’esatta relazione. — E che più mi resta a vedere, disse Sancio, oltre a ciò che ho veduto? — Questo è appena il principio, rispose don Chisciotte, ed ora vedrai quello che mi resta a fare: lacererò i vestiti, disperderò l’arme qua e là, batterò la testa per questi massi, con altre simili cose che ti faranno trasecolare. — Per amore di Dio, disse Sancio, guardi bene la signoria vostra quello che fa nel dare la testa tra questi massi, perchè potrebbe essere che ella urtasse in tal masso e in tal punto, che con la prima botta finisse la macchina di questa sua penitenza. Io sarei piuttosto di parere che se vossignoria giudica indispensabile il dare della testa per queste pietre, e senza di ciò non sarebbe compita la sua opera, si contentasse, (poichè tutto è finzione e cosa contraffatta e da burla) si contentasse, ripeto, di batterla nell’acqua od in altra cosa morbida come la bambagia, e lasciasse a me il carico di far sapere alla sua signora che vossignoria la batteva nella punta di un sasso più duro di un diamante. — Son grato, amico Sancio, alla tua buona intenzione, rispose don Chisciotte; ma devi sapere che quanto mi accingo a fare qui non è cosa da burla ma vera, perchè in altro modo sarebbe contravvenire agli ordini di cavalleria che ci comandano di non mentire a verun patto sotto pena di ripulsa; e il fare una cosa per un’altra è lo stesso che mentire. Le testate ch’io darò per queste balze debbono essere vere, stabili ed efficaci, senza contrassegno veruno di sofisticheria o di fantasticheria; e perciò sarà necessario che tu qui mi lasci delle fila per curarmi, giacchè ora appunto vuol la mia disdetta che ci manchi il balsamo da noi perduto. — E peggio è stato, soggiunse Sancio, il rubamento del mio asino, perchè con esso si sono smarrite anche le fila e tante altre cose; prego poi vossignoria a non volersi ricordare di quel maledetto beverone, chè al solo sentirlo rammemorare mi viene da recere quanto ho nello stomaco; e più di tutto la supplico a considerare come passati i tre giorni che mi ha prescritti per veder le sue pazzie, che già le do per vedute e giudicate; e ne dirò maraviglie alla sua signora. Ora ella scriva pure la lettera, e si sbrighi sollecitamente perchè ardo d’impazienza di ritornare a trarre vossignoria da questo purgatorio in cui la lascio. — Purgatorio lo chiami, Sancio? disse don Chisciotte; meglio faresti a chiamarlo inferno; e peggio ancora, se vi ha cosa di peggio. — Chi è all’inferno, rispose Sancio, nulla est retentio, per